Prescrizione batte Giustizia: per la morte di Antonio D’Amico non c’è colpevole

RAVENNA – Antonio D’Amico, racconta sua figlia Concetta, “puzzava di fabbrica”. Era uno di quei “quadri intermedi” FIAT, considerati ancora – dai tanti fighetti di sinistra – “venduti e traditori”,  che aveva fatto del suo “Lavoro” il suo biglietto da visita e – insieme alla dedizione alla sua famiglia – la sua ragione di vita.

In “Fabbrica”, a Pomigliano, Antonio era entrato da ragazzo e, a 52 anni, aveva compiuto tutta la trafila che lo aveva portato – da apprendista – ad assumere un ruolo di coordinamento e guida dei suoi compagni di lavoro non solo per motivi legati alla disciplina e alla gerarchia contrattuale ma, soprattutto, perchè era uno dei migliori; un punto di riferimento, insomma!

Ebbene, con questa esperienza; con questo retroterra di sapere e di conoscenza, quel maledetto 6 marzo 2002, Antonio – a detta di FIAT, che l’ha dichiarato al processo – avrebbe agito con leggerezza e avventurismo, al punto di trovarsi davanti alle ruote del “muletto” che lo ha investito uccidendolo.

Il mezzo, è stato appurato in sede processuale, era guidato – senza patentino – da uno dei “disperati” della produzione: un incolpevole giovane precario, neo assunto dalla società appaltatrice dei lavori di logistica, senza formazione né esperienza che in primo grado, comunque, si accolla tutta la responsabilità e viene condannato, nel 2008 (sei anni dopo l’omicidio, a quattro anni dall’inizio della causa), a poco più di un anno.
Con lui, ad onor del vero, vengono parimenti condannati: il suo capo diretto e un dirigente della società LOGIT tant’è che, stante che tutti i chiamati in causa di FIAT (4 dirigenti) sono andati assolti, è solo per salvare loro, non certo il ragazzo, che l’azienda di “Corso Agnelli” ricorre in appello chiedendo l’annullamento della sentenza di primo grado.

Il processo di appello si trascina, tra un rinvio e l’altro, per quasi quattro anni mettendo in opera un’azione di demolizione fisica e morale dei familiari di Antonio, primo tra tutti suo figlio Rosario, dirigente sindacale di USB in FIAT, che da oltre 10 anni vive solo per riabilitare la memoria di suo padre e per ottenere la condanna dei suoi assassini.

é proprio Rosario, presente in fabbrica anche il giorno dell’omicidio di suo padre, che mi racconta dei tempi artatamente dilatati: una volta solo perché il numero civico dell’indirizzo di residenza di uno degli imputati non corrispondeva all’indirizzo comunicato; e delle tante umiliazioni a cui è stata sottoposta la sua famiglia attraverso: false testimonianze; spostamenti in reparti confino e continue provocazioni. Fino all’ultima, il giorno della sentenza di “prescrizione del reato” quando, al termine della lettura del dispositivo, il giudice ha chiesto ai carabinieri in aula di “scortare” i familiari all’uscita.

Prescrizione, dunque. Anche in questo caso la giustizia italiana, impotente con i potenti, arriva ad appurare una verità; indica i colpevoli e li processa ma li manda a casa senza “punizione” e, come se non bastasse, condanna i familiari delle vittime ad un di più di onta fatta di sorrisetti, di calunnie gratuite e di minacce quelle a cui, fin dal 6 marzo 2002, Rosario è stato sottoposto e che oggi, fatta forte dalla sentenza favorevole e dei mutati rapporti di forza post referendarie in fabbrica, FIAT sarà tentata d’inasprire.

Ben vengano, dunque, i riflettori accesi dal presidente della Repubblica, che il prossimo 1° maggio consegnerà a Rosario, la “Stella al Merito” alla memoria di suo padre Antonio, perché – più del valore simbolico – sono un modo per inibire le azioni repressive di FIAT. Purtroppo, però, possono non bastare ed è per questo motivo che quei riflettori dobbiamo tenerli accesi il più a lungo possibile. Dobbiamo azionare un’opera fatta di continui appelli, notizie, iniziative di sostegno a Rosario che costituiscano, insieme ad una doverosa azione informativa, un deterrente a qualsiasi atto ostile nei suoi confronti.

Non mi illudo di battere il colosso di Detroit e il suo profeta. Ma non tentare, almeno, di far valere i miei diritti di cittadino indignato e di consumatore sovrano: orientato e incazzato, sarebbe una sciocca e inutile resa senza combattere a cui, almeno io, proprio non riesco a rassegnarmi.

Così, dopo gli accordi imposti dal profeta del nuovo capitalismo, io e mia moglie, abbiamo deciso di comprare – fino a prova contraria – solo macchine di altre aziende europee, tedesche o francesi: ci sembrano migliori, costano di meno e – almeno a prima vista – trattano meglio i loro operai!

A proposito, in barba alla bile del profeta che continua a perdere quote di mercato, lo scorso anno ne abbiamo cambiate due. A rate, ovviamente!

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