L’infelicità della vita non si cura negli ospedali psichiatrici

ROMA – E’ di questi giorni la notizia della proposta di revisione della Legge 180, per ora approvata dalla Commissione Affari Sociali della Camera. 

La legge in questione, detta “Legge Basaglia”in quanto ispirata al pensiero dello psichiatra Franco Basaglia, sovvertiva il punto di vista rispetto alla funzione degli ospedali psichiatrici come unico mezzo per curare la malattia mentale. Ricordiamo che Basaglia fu direttore dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia negli anni ’60, poi di quello di Trieste e che le sue battaglie per ridefinire il ruolo della psichiatria “come tecnica, come strumento di liberazione o di oppressione” *gli causarono numerosi rinvii a giudizio e processi.

Non intendo entrare nel merito della questione dal punto di vista politico né da quello economico. Lo sfacelo del sistema sanitario nazionale, come la crisi economica, sono problemi già ampiamente discussi. La complessità delle variabili in gioco, quali le scelte politiche, il nostro contesto culturale, gli investimenti necessari alla ricerca ed alla creazione di strutture  alternative di assistenza psichiatrica e di strutture residenziali ad esse collegate ci porterebbero troppo lontano.

Propongo piuttosto uno spunto di riflessione intorno al problema etico che è insito nell’approccio verso i malati di mente: la malattia mentale rappresenta l’infelicità  della vita delle persone che ne sono affette. Non è semplicemente un disturbo fisico, da curare applicando al meglio le conoscenze scientifiche, ma presuppone la capacità di sviluppare empatia con le persone che ne sono affette, una vera e propria vocazione terapeutica . Vocazione all’immedesimarsi in quel tipo di sofferenza e, quindi, ad immedesimarsi  nel contesto di ricovero. Inoltre l’uso di strutture contenitive come gli ospedali psichiatrici ci pone davanti al problema della libertà di queste persone. Basaglia  sottolineava  il ruolo di controllo sociale esercitato dai manicomi, come sottolineava la inadeguatezza dell’approccio “manageriale” degli psichiatri alla malattia mentale.  Basaglia dimostrò che “si può assistere la persona folle in un altro modo, e la nostra testimonianza è fondamentale”*.Nell’ospedale psichiatrico di Trieste da lui diretto, dal 1971 al 1979 i ricoverati passarono da 1200 a circa 200. Tutto ciò fu possibile grazie alla creazione di Centri di Salute Mentale nel territorio ed all’inserimento di altre figure professionali oltre a quella dello psichiatra: assistenti sociali, psicologi, nonché una equipe per l’emergenza. Fu attuata anche una profonda sensibilizzazione a partire dai singoli quartieri  della città riguardo al problema della reintegrazione del malato nella comunità. Il fine di Basaglia non era quello di creare i presupposti per una maggiore tolleranza, quanto  le basi per una presa in carico da parte delle famiglie e della comunità, principalmente fornendo, a tutti i livelli, una più ampia conoscenza della malattia mentale e della struttura dei manicomi.

Il problema di fondo rimane quello della difficoltà ad intraprendere una vera relazione umana con il malato di mente, non solo a livello familiare, ma a livello medico e a livello sociale. La malattia mentale è da sempre chiusa nel pregiudizio: pone il problema della perdita della coscienza. La coscienza è da sempre identificata con il problema del male : la coscienza è,’ nel sentire comune,  lo strumento che ci permette di distinguere il bene dal male. Il passo immediatamente successivo è l’identificazione del malato di mente con chi fa del male, con la persona pericolosa.
Concludo con una frase di Kafka, tratta da “Il messaggio dell’imperatore”: <Scrivere ricette è facile, ma intendersi con la gente è difficile>.
*F. Basaglia  da “ Conferenze brasiliane” 1979 ed. R. Cortina 2000
* ibidem

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