Il terremoto cambia la vita: il “rifugio” non è la casa ma il mondo esterno

ROMA – Continuano le scosse sismiche in Emilia. Nel passato remoto e negli anni più recenti In Italia si sono verificati molti eventi sismici più o meno devastanti .

Gli psicologi ed i neurologi hanno esaminato a fondo le conseguenze che un evento di questo genere lascia nella psiche delle persone, in particolare nei bambini. Paura, rabbia, insonnia, attacchi di panico, incubi notturni e shock da trauma quali afasia e disturbi della memoria. Può capitare, infatti, che si inneschi un meccanismo di rimozione totale dell’evento, un rifiuto profondo di ricordare quei momenti troppo terrificanti. Questo processo di rimozione, d’altronde, non tranquillizza nel profondo la persona, ma genera disturbi quali quelli sopra menzionati, con la sola differenza di farli apparire scollegati dal trauma .
Possiamo comunque riflettere su due aspetti psicologici collegati al dopo-terremoto.

Il primo: la casa, che rappresentava un rifugio, un simbolo di sicurezza e di “difesa” verso l’esterno  viene a rappresentare di colpo un pericolo. C’è una totale inversione dei punti di riferimento. La sicurezza ora è lo spazio aperto, il mondo esterno. Il bisogno di riappropriarsi del proprio ambiente, delle proprie cose, che pure continua ad essere presente, si scontra col terrore di rientrare nella propria casa.
  Il secondo: in un mondo basato sull’individualismo e nel quale spesso si ha difficoltà a conoscere persino chi abita nella porta accanto, il terremoto causa un ritorno a modalità di vita arcaiche: ci si trova a condividere i pasti, le notti, i servizi igienici. C’è il ritorno ad una vera comunicazione. Si instaurano rapporti empatici, che vanno oltre la solidarietà legata alla situazione che si sta vivendo.

Per quanto può sembrare assurdo, eventi drammatici quali terremoti, guerre, inondazioni portano con sé il riappropriarsi delle  capacità introspettive insite nell’uomo e l’occasione di ritrovare gli aspetti più profondi del contatto e del rapporto umano. Ci si guarda dentro e si guarda l’altro con occhi diversi.
Fermo restando che, ovviamente, ci si augura che nessuno, e in nessuna parte del mondo, debba dover vivere tali sciagure.

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