Per una sinistra riformista ecologista

ROMA – Nei giorni scorsi è stato costituito un nuovo soggetto politico ecologista. Le ragioni addotte  fondamentalmente sono riconducibili alla poca attenzione della “politica” ai temi ecologisti e segnatamente del Partito Democratico, considerato comunque l’interlocutore di riferimento.

La cosa è indiscutibilmente vera: recentemente proprio su Dazebao richiamavo l’attenzione sulla necessità della cultura riformista italiana, in particolare il PD, di superare rapidamente questo limite. Non credo però che la risposta stia nel  dare vita ad un nuovo soggetto politico ecologista. Così facendo si ripercorrono sentieri già attraversati che, al dunque, hanno portato solo a disperdere tante attese e speranze.
Io ritengo che la mancata penetrazione dell’ecologismo nel cultura politica riformista del  Paese sia dipesa dalla incapacità di noi ecologisti di dare spessore politico alle nostre proposte e di aggregare su di esse consenso politico. Abbiamo pensato, cioè, che l’azione pedagogica, teorica e pratica, fondata sulla solida base scientifica delle nostre proposte programmatiche,  fosse sufficiente a sconfiggere interessi consolidati e tenacemente radicati in un modello economico e sociale incardinato sul consumismo: rileggere oggi Pasolini può essere di qualche insegnamento anche da questo punto di vista. La stessa nostra analisi della cultura neoliberista e delle sue conseguenze è stata straordinariamente approssimativa e, in alcuni casi, anche subalterna pensando che il mercato, al dunque, avrebbe riconosciuto il “valore” della componente ecologica nelle merci. Penso inoltre che il limite più grave sia stata la sottovalutazione della dimensione sociale della sostenibilità. Se andiamo a ben vedere l’ecologismo italiano non si è mai fatto carico delle conseguenze sul mondo del lavoro delle proposte che via via avanzava. L’errore è stato non aver assunto come propria la contraddizione ambiente/lavoro e, quindi, non  aver compreso che una conversione ecologica del sistema produttivo richiede una transizione che si può realizzare solo conquistando il consenso di quei lavoratori che per primi corrono il rischio di pagarne le conseguenze.

Ed allora, se questi sono i problemi, oggi l’impegno di un ecologismo riformista militante deve dimostrasi capace di far vivere nel dibattito politico un progetto generale di trasformazione a partire da una propria lettura di quanto sta avvenendo nel Paese, in Europa e nel mondo. Ad esempio cominciando con il dire in modo chiaro che la crisi non è globale, ma è solo dell’Europa. Che in gioco è la ripartizione mondiale della ricchezza e che se l’Europa non trova la forza di svolgere un ruolo da protagonista (cosa possibile solo con gli Stati Uniti d’Europa) sarà costretta a ridurre progressivamente il suo livello di benessere (cosa che già sta avvenendo). Che se vogliamo mantenere i nostri attuali standard di vita ed estenderli ai popoli che ne sono privi, le conseguenze sull’ambiente saranno devastanti. Che questo significa parlare di come si avvia e si governa uno “sviluppo” fondato su un nuovo paradigma che in estrema sintesi si potrebbe dire “di più e meglio con meno. Che per questo si deve battere la cultura neoliberista ancora imperante. Che è necessario affermare la garanzia pubblica sui “beni comuni”. Che il mondo del lavoro va reso protagonista della transizione affermando con forza il  ruolo sociale dell’impresa (l’impresa come bene collettivo) come previsto dalla nostra Costituzione e i freni che pone l’attuale sistema di relazioni industriali alla transizione alla sostenibilità. Più in generale va posto il problema del rapporto tra democrazia e sostenibilità e conseguentemente, delle istituzioni per la sostenibilità e quindi i termini moderni di un nuovo “patto sociale”. Non dimentichiamo che lo stato sociale socialdemocratico fu realizzato sulla base di un patto sociale tra capitale e lavoro e sulla creazione di un sistema democratico e istituzionale coerente con le sue finalità.  Dovremmo inoltre porre con forza il tema della  “ecologia della politica” e quindi una più profonda comprensione della natura del conflitto ambientale che non sempre è mediabile e dei processi partecipativi delle organizzazioni della società civile per la condivisione delle scelte necessarie per sostenere la transizione.

Come si vede un primo elenco di argomenti tutti di grandissima attualità e che solo apparentemente non hanno nulla dell’ecologismo tradizionale. Non si parla di acqua e di rifiuti, non si parla di biodiversità o energia, non si parla di parchi o di cambiamento climatico. Si parla però di riforme graduali, ma radicali, di come trasformare il nostro sistema economico, sociale, istituzionale e democratico per renderlo capace di produrre e sostenere una transizione alla  sostenibilità da far vivere nell’attuale stagione. Tutto questo è assente dal dibattito politico, ma la cosa più grave è assente nel dibattito degli ecologisti. Porlo all’attenzione del Paese è dunque una nostra precisa responsabilità e, se non vogliamo perdere un’altra occasione, questa dovrà essere la linea politica su cui attestare il movimento ecologista riformista, tutto il resto sono “pensierini ambientalisti” incapaci di incidere sugli interessi in campo.

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