Enzo Tortora, un uomo perbene

Storia dell’incredibile errore giudiziario che causò la morte del celebre giornalista

“Dunque, dove eravamo rimasti?”

(Enzo Tortora, 1987)

MILANO – Il “caso” Enzo Tortora rimane una tragica macchia nera nella storia della giustizia italiana. Un’onta che getta pesanti ombre sull’efficienza di uno dei poteri fondamentali di una democrazia moderna. La drammatica vicenda del celebre giornalista ricorda in parte quella del film di Nanni Loy “Detenuto in attesa di giudizio”, in cui Alberto Sordi per errore viene accusato di un grave reato. Verrà sbattuto in carcere e letteralmente distrutto nel fisico e nello spirito prima di essere dichiarato estraneo ai fatti. Nel caso di Enzo Tortora, l’incredibile e inaccettabile errore giudiziario, ha portato alla sua prematura morte a 60 anni dopo che era stato assolto con formula piena. I giudici della procura di Napoli che lo avevano ingiustamente condannato in primo grado non hanno subito nessuna sanzione. L’odissea di Enzo Tortora ricorda anche l’incubo del protagonista del “Processo” di Franz Kafka.

Al momento del suo arresto, Enzo Tortora era uno dei giornalisti e conduttori televisivi più popolari in Italia.

Faceva parte del ristretto gruppo dei “grandi” insieme a Pippo Baudo, Mike Bongiorno e Corrado. Era stimato e amato soprattutto per la sua gentilezza, per i suoi modi raffinati e rispettosi. Era insomma il classico e raro uomo perbene.

L’arresto

La trionfale carriera di Tortora viene bruscamente interrotta il 17 giugno 1983, quando viene arrestato con l’accusa di associazione per delinquere di stampo camorristico dalla Procura di Napoli. Il clamore è enorme in tutto il Paese.

Le accuse si basano sulle dichiarazioni dei pregiudicati Giovanni Pandico, Giovanni Melluso (soprannominato “Gianni il bello”) e Pasquale Barra, noto come assassino di galeotti quand’era detenuto e per aver tagliato la gola, squarciato il petto e addentato il cuore di Francis Turatello, uno dei vertici della malavita milanese; infine altri 8 imputati nel processo alla cosiddetta Nuova Camorra Organizzata, tra cui Michelangelo D’Agostino pluriomicida, detto “Killer dei cento giorni”, puntano l’indice su Tortora. A queste accuse si aggiungeranno quelle – rivelatesi anch’esse in seguito false – del pittore Giuseppe Margutti, già pregiudicato per truffa e calunnia, e di sua moglie Rosalba Castellini, i quali dichiareranno di aver visto Tortora spacciare droga negli studi di Antenna 3. L’accusa si basa, di fatto, unicamente su di un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista, Giuseppe Puca detto “O’Giappone”, con su scritto a penna un nome che appare essere, all’inizio, quello di Tortora, con a fianco un numero di telefono; nome che, a una perizia calligrafica, risulterà non essere il suo, bensì quello di tale Tortona. Nemmeno il recapito telefonico risulterà appartenere al presentatore. Si stabilirà, per giunta, che l’unico contatto avuto da Tortora con Giovanni Pandico fu a motivo di alcuni centrini provenienti dal carcere in cui era detenuto lo stesso Pandico, centrini che erano stati indirizzati al presentatore perché venissero venduti all’asta del programma Portobello.

La redazione di Portobello, “invasa” di materiale inviatole da tutta Italia, smarrisce i centrini ed Enzo Tortora scrive una lettera di scuse a Pandico. La vicenda si conclude poi con un assegno di rimborso del valore di 800mia lire. Nella figura di Pandico, schizofrenico e paranoico, crescono sentimenti di vendetta verso Tortora. Inizia a scrivergli delle lettere, che pian piano assumono carattere intimidatorio con scopo di estorsione. Il presentatore sconta sette mesi di carcere – ottenendo tre colloqui con i magistrati inquirenti Lucio Di Pietro e Felice Di Persia – e continua la sua detenzione agli arresti domiciliari per motivi di salute.  Nel giugno del 1984, a un anno esatto dal suo arresto, Enzo Tortora viene eletto deputato al Parlamento europeo nelle liste del Partito Radicale, che ne sosterrà le battaglie giudiziarie. 

La condanna

Il 17 settembre 1985 Tortora viene condannato a dieci anni di carcere, principalmente per le accuse di altri pentiti. Il 9 dicembre 1985 il Parlamento Europeo respinge all’unanimità la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’eurodeputato Enzo Tortora per oltraggio a magistrato in udienza. Molti suoi colleghi “esultano” dopo la condanna in primo grado. Il sistema nervoso del presentatore televisivo vacilla, ma non si arrende. Tortora non molla perché è consapevole della sua innocenza ed è certo che saprà dimostrarlo nell’appello.

L’assoluzione con formula piena

Il 15 settembre 1986 Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli e i giudici smontano in tre parti le accuse rivolte dai camorristi, per i quali inizia un processo per calunnia: secondo i giudici, infatti, gli accusatori del presentatore – quelli legati a clan camorristici – hanno dichiarato il falso allo scopo di ottenere una riduzione della loro pena. Altri, invece, non legati all’ambiente carcerario, avevano il fine di trarre pubblicità dalla vicenda: era, questo, il caso del pittore Giuseppe Margutti, il quale mirava ad acquisire notorietà per vendere i propri quadri.

Il ritorno in televisione

Enzo Tortora torna in televisione il 20 febbraio del 1987, quando ricomincia con il suo Portobello. Il ritorno in video è toccante, il pubblico in studio lo accoglie con una lunga standing ovation. Tortora, leggermente invecchiato e fisicamente molto provato dalla terribile vicenda passata, con evidente commozione pronuncia serenamente la famosa frase: “Dunque, dove eravamo rimasti?”

La morte

Conclusa in anticipo, causa malattia, la conduzione del suo ultimo programma televisivo intitolato “Giallo” andato in onda nell’autunno 1987, Enzo Tortora muore la mattina del 18 maggio 1988 nella sua casa di Milano, stroncato da un tumore polmonare. I funerali – a cui parteciparono amici e colleghi tra i quali Marco Pannella, Enzo Biagi, Piero Angela – si tennero presso la Basilica di Sant’Ambrogio a Milano. 

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