Marco Biagi: un delitto annunciato

Il 19 marzo 2002 il giuslavorista veniva ucciso a Bologna dalle Brigate rosse

MILANO – Bologna, 19 marzo 2002, via Valdonica 14. E’ una tipica strada con i caratteristici portici del centro della città. Il giuslavorista Marco Biagi, 51 anni, consulente per l’allora ministro del Welfare Roberto Maroni, sta rientrando a casa in bicicletta. Alle 20 e sette minuti viene affrontato da un commando di tre brigatisti rossi che gli sparano in rapida successione sei colpi di pistola.

Il professore non ha nemmeno il tempo di rendersi conto dell’agguato: si accascia al suolo. Dopo pochi minuti arriva un’ambulanza del 118. Enzo Biagi muore tra le braccia di un infermiere. Una scena tragica, agghiacciante, tipica della disumana ferocia dei brigatisti. A tre anni dall’uccisione di Massimo D’Antona, il Paese è sotto choc. Eppure, il professor Marco Biagi non era morto quel giorno. La sua agonia era inizia il giorno dell’omicidio del suo amico Massimo D’Antona, avvenuto a Roma il 20 maggio del 1999 sempre ad opera delle Brigate Rosse.

Marco Biagi come molti altri “eroi silenziosi”, ovvero quelle persone che continuano a fare il proprio dovere anche se minacciate di morte, era stato abbandonato dallo Stato, dalle istituzioni, dal governo e soprattutto dall’allora ministro degli Interni, Claudio Scajola che gli aveva revocato la scorta. Una decisione assurda, incomprensibile, inspiegabile. Biagi si era rivolto al presidente della Camera Casini, al ministro Maroni, al sottosegretario Sacconi, al capo della Polizia. Decine di e-mail in cui il giuslavorista spiegava i timori per la propria incolumità.

Il delitto Marco Biagi ha dimostrato per l’ennesima volta la miopia e il cinismo della politica che non ha voluto proteggere in nessun modo un suo “servitore”.

Torniamo al quel tragico 19 marzo 2002. Nel compiere l’agguato, i brigatisti vennero agevolati soprattutto dal fatto che Biagi girava senza protezione dopo che, qualche mese prima, gli era stata revocata la scorta, come ebbe a testimoniare anche Cinzia Banelli, la terrorista pentita che, al processo per l’uccisione del giuslavorista, raccontò proprio che “Se Marco Biagi avesse avuto la scorta non saremmo riusciti ad ucciderlo. Per noi due persone armate costituivano già un problema. Non eravamo abituati ai veri conflitti a fuoco. Avremmo dovuto fare più attenzione, osservare possibili cambiamenti nella situazione del professore. Dovevamo controllare che non fosse solo. Invece arrivò alla stazione di Bologna da solo”.

Le indagini per individuare i responsabili della morte di Biagi furono efficaci e rapide. Il 2 marzo 2003 Desdemona Lioce, che assieme all’altro brigatista Mario Galesi sta viaggiando sul treno regionale Roma-Firenze, viene sottoposta ad un normale controllo documenti dagli agenti della Polizia Ferroviaria nei pressi di Castiglion Fiorentino. Temendo di essere scoperti, i due brigatisti decidono di impugnare le armi e di aprire il fuoco contro gli agenti, colpendo a morte il sovrintendente Emanuele Petri. Anche Galesi, ferito gravemente durante la sparatoria, morirà poco dopo il trasporto in ospedale mentre la Lioce, riconosciuta come terrorista, verrà arrestata mettendo così fine alla sua latitanza. In suo possesso, al momento della cattura, gli agenti rinvengono due computer palmari, un biglietto da visita della società Graphocart-Strabilia di Roma e una scheda telefonica prepagata. E proprio l’analisi del contenuto dei suoi palmari, porterà alla luce diversi documenti con possibili obiettivi da colpire, risoluzioni strategiche e diverse altre prove che collegavano i due (fino ad allora sconosciuti) terroristi con la sigla Nuove Br e con gli omicidi D’Antona e Biagi. Un mese dopo l’arresto, il 2 aprile 2003, nell’abito dell’inchiesta sull’omicidio Biagi, condotta dal Pubblico ministero Paolo Giovagnoli, vengono emesse altre quattro ordinanze di custodia cautelare per altrettanti appartenenti alle Nuove Brigate rosse che, con ruoli diversi, avrebbero partecipato all’assassinio del giuslavorista: oltre al nome della Lioce ci sono anche Simone Boccaccini, Cinzia Banelli e Roberto Morandi.

Nel processo di primo grado, il 1º giugno 2005, la Corte d’Assise di Bologna, dopo ventidue ore di camera di consiglio, condanna a cinque ergastoli altrettanti componenti delle Nuove Br Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Diana Blefari Melazzi e Simone Boccaccini. Il 6 dicembre 2006, la Corte d’assise d’appello, conferma in secondo grado l’ergastolo per Diana Blefari Melazzi, Roberto Morandi, Nadia Desdemona Lioce e Marco Mezzasalma, riducendo a 21 anni di reclusione la condanna per Simone Boccaccini, riconoscendogli le attenuanti generiche. Nel terzo ed ultimo grado di giudizio, l’8 dicembre 2007, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione di Bologna, conferma il verdetto emesso in secondo grado rendendo definitive le condanne ai cinque brigatisti responsabili, tranne che per Nadia Desdemona Lioce, la quale non aveva presentato ricorso in cassazione.

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