150° Unità d’Italia. Le “confuse” certezze di Ratzinger, ovvero: l’obbedienza non è più una virtù

RAVENNA – Giunti, ormai, a distanza di sicurezza dal fatidico e contrastato 17 marzo, 150° Anniversario della proclamazione del “regno d’Italia”, per amore di verità (quella storica, almeno) più che di polemica – proprio nel giorno della memoria dell’abdicazione e della fuga di Carlo Alberto in Portogallo, a seguito della sconfitta nella battaglia della “Bicocca” a Novara (23 marzo 1849), contro gli austriaci chiamati da Pio IX – vogliamo cogliere l’occasione per riflettere sulla lettera che papa Ratzinger ha indirizzato, al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano per l’occasione.

Un messaggio importante che – come la partecipazione del segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, lo scorso 20 settembre, alle celebrazioni per il 140 anniversario della presa di Roma, tenta di accreditare un nuovo corso nelle relazioni tra i due Stati che, dopo la “traumatica” fine del partito unico dei cattolici italiani, non possono più svolgersi nel chiuso delle stanze della curia lateranense o traspontina.

Si tratta, però, come al solito, d’un tentativo maldestro che – come da consuetudine vaticana – oltre ad arrivare abbondantemente fuori tempo massimo quando, cioè, l’evidenza dei fatti non è più negabile, tenta, perdippiù, di riscrivere quelle parti della Storia in cui uno dei successori di papa Gregorio II, fondatore – nel 728 – della dinastia elettiva vaticana, o non ci fece una bella figura o, peggio ancora, come accade a molti uomini, sbagliò clamorosamente: analisi, decisioni e comportamenti.

Ebbene, nel merito, la missiva papale a Napolitano inizia subito con una forzatura segnalando come il Risorgimento sia “il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima”. “In effetti – scrive il papa – la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale”.

Vi è, in questa segnalazione, peraltro non nuova, un’esplicita volontà di far risalire all’umanesimo rinascimentale, ai valori e alle icone spiritual-cristiane da questo incarnati ed espressi, i presupposti della futura nazione, assegnando alla Chiesa la funzione di stimolo, quando non di vero e proprio motore, del processo di unità.

Ad onor del vero, il papa tedesco non cade nel tranello e parla di “Cristianesimo che ha contribuito  – scrive – alla costruzione dell’identità italiana” ma il suo intento, è comunque, palese anche se la Storia, invece, dice altro e parla – come ci spiega Gramsci – di un Risorgimento come processo: “di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione e alle forze interne nazionali di svilupparsi ed espandersi” le cui origini non sono da “ricercare in questo o quell’evento concreto ma, appunto, nello stesso processo storico per cui l’insieme del sistema europeo si trasforma.

Un processo, quindi, non indipendente dagli eventi interni della penisola e dalle forze che in essa hanno la sede, primo tra tutti – appunto – il Papato che, proprio dopo il 1848 e il voltafaccia di Mastai-Ferretti, evidenzia ancor di più il forte indebolimento della sua potenza segnato dalla perdita della capacità d’influire sia direttamente sia indirettamente sui governi attraverso la pressione delle masse popolari le quali – già dopo la Controriforma e le guerre sterminatrici di cui il papato si era fatto promotore – gli avevano alienato il proprio consenso a causa dell’irrimediabile confusione tra le classi dominanti e le gerarchie stesse.

Un processo, quindi, se non proprio “contro”, sicuramente “ostile” a quello che il potere temporale incarnava sia di per se stesso che per le alleanze che costruiva e realizzava in senso (sempre) anti italiano. Ricambiato, peraltro, a suon di scomuniche: non solo a tutti i governanti che – di volta in volta – avevano appoggiato la causa italiana ma, anche, di tutti quegli artefici dell’Unità Nazionale festeggiata il 17 marzo, di cui nella missiva papale non si trova traccia.

Infatti, di seguito al lungo elenco di artisti “che – secondo Lui – hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana”, il Santo Padre, inserisce Gioberti, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini e Antonio Rosmini segnalandoli per “l’apporto di pensiero – e talora di azione – alla formazione dello Stato unitario” ma non spende una parola, non dico per Garibaldi, massone e socialista che chiamò “pionono” il suo amato asino, ma neanche per ricordare il cattolico non praticante, conte di Cavour, morto scomunicato per la legge sui conventi e sugli ordini religiosi, né per fra Giacomo da Poirino, sospeso a divinis per aver amministrato i sacramenti al “Conte” in punto di morte figuriamoci per ricordare l’opera di don Giovanni Verità, il parroco di Modigliana – a cui furono negati i funerali religiosi – reo di aver aiutato Garibaldi e il capitano Leggero nella loro fuga (la trafila) da Cesenatico alla Toscana dopo la tragica conclusione  dell’esperienza della Repubblica Romana.

No! Di tutti questi “altri” cattolici il papa “tedesco” non fa memoria preoccupato soltanto di salvare, nominandolo il minimo indispensabile, il “beato papa Pio IX” e, pur di dimostrare che non vi fu “conflitto”, arriva a interpretare la storia a suo modo sostenendo che “se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di “Questione Romana”, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale “Conciliazione”, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. In definitiva – conclude Ratzinger – la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto”.

Può darsi, anzi è quasi certo che non vi fu conflitto nel corpo sociale e che molti cattolici, così come sarebbe accaduto, in seguito nella lotta partigiana, combatterono e morirono per la Patria come gli azionisti, i liberali, i proto-socialisti, gli anarchici. Ma quel che è certo è che costoro  dovettero farlo a scapito della propria fedeltà alla Chiesa, almeno a quella “militante”, alle sue gerarchie e ai suoi precetti e, in molti casi, in aperto contrasto con le sue scelte.

Troppo comodo Santità – verrebbe da dire – liquidare tutta la partita appropriandosi dell’operato dei cattolici prima, durante e dopo il Risorgimento non ricordando che per operare in quel modo i credenti dovettero evitare la confessione e, dopo l’emanazione del “non expedit” (30 gennaio 1868) poi completatosi, nel 1886, con Leone XIII in “prohibitionem importat”, rischiare perfino la scomunica addossandosi un di più di “pena”, rispetto agli altri cittadini di diverso credo.

Troppo comodo, dimenticarsi che Ugo Bassi fu fucilato senza neanche essere ridotto allo stato laicale facendo incorrere in scomunica i suoi stessi aguzzini (i militari della cattolicissima Austria) per aver ucciso un “consacrato”. Troppo comodo cancellare in un colpo, senza alcuna riflessione o censura, le colpe di un “beato” che arrivò a benedire Napoleone III il quale, in aperta violazione della Costituzione francese, bombardava i suoi “sudditi” in difesa di Porta S. Pancrazio o del “Vascello” al Gianicolo.

Troppo comodo, soprattutto, accorgersi oggi che grazie al lavoro, al sacrificio e all’impegno dei cattolici che allora “non obbedirono”, la gerarchia cattolica può guardare in faccia gli italiani di oggi appellandosi all’italianissimo “chi ha avuto, ha avuto… chi ha dato, ha dato”.

Troppo comodo, infine perché, sembra che ancora la lezione non sia servita a far comprendere al “diretto interessato” che – come disse don Bassi a Pio IX in fuga per Gaeta – la fine del potere temporale può solo giovare al magistero della Chiesa e al “lavoro” di Pietro per la sua edificazione.

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