Quindici anni fa le Brigate rosse uccidevano il giuslavorista D’Antona

ROMA – Nel 1999 non si parlava quasi più delle Brigate Rosse. Molti ex componenti erano in carcere, altri avevano avuto grossi sconti di pena ed erano in libertà vigilata, alcuni erano morti, qualcuno era tornato completamente libero.

Gli ultimi attentati erano avvenuti nel 1987 e l’anno seguente i brigatisti del nucleo storico in carcere, avevano scritto una lettera che fu considerata come “la resa”  definitiva delle Br contro lo Stato democratico. Nel 1999 nessuno si aspettava che le Brigate Rosse avrebbero colpito nuovamente con un attentato ben organizzato e mirato. L’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona, 51 anni, stretto collaboratore dell’allora ministro Bassolino fu uno shock terribile del Paese intero. Il terrorismo tornava prepotentemente nella vita politica dell’Italia con un delitto barbaro e feroce.

Oggi, 20 maggio, ricorre il 15° anniversario del suo sacrificio. Il professore, sconosciuto ai più, era stato scelto dai brigatisti perché voleva migliorare il mondo del lavoro, allora come oggi ingessato, paralizzato da cavilli e pastoie burocratiche.

Ecco la cronaca di quel terribile giorno. Erano da poco passate le 8 di mattina, del 20 maggio 1999 quando, il professor Massimo D’Antona, consulente del Ministero del Lavoro, era da poco uscito dalla sua abitazione di via Salaria, angolo via Po, a Roma, per recarsi al lavoro nel suo studio, situato a poca distanza dal suo appartamento. Superato l’incrocio con via Adda, all’altezza di un cartellone pubblicitario che lo nasconde dalla vista dalla strada, intorno alle ore 8.13, il professore, viene bloccato dal commando di brigatisti formato da Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce che sono già dalle cinque e mezzo nascosti all’interno del furgone parcheggiato al lato della via.

Per loro l’azione è già cominciata quattro giorni prima, con l’operazione di parcheggio dei mezzi: due furgoni Nissan in sosta in via Salaria, due scooter per la fuga della squadra operativa e le biciclette per le staffette. I due, nel mezzo, controllano la strada attraverso un piccolo foro ricavato attraverso la vernice bianca che oscura i vetri. Baffi finti, un contenitore per le urine e le borse con all’interno le armi. Ma non sono soli. Altri tre elementi del gruppo operativo (le cosiddette staffette) hanno già raggiunto la loro posizione prevista e sono tutti equipaggiati con finti telefonini, ricetrasmittenti, cerotti sulle dita per non lasciare impronte, cappellini con visiera e occhiali da vista. Nel mentre, il professor D’Antona si è già avviato lungo il marciapiede che costeggia Villa Albani ed ha già quasi percorso gran parte degli ultimi centotrenta passi che lo separano dell’ultimo istante della sua vita. Un testimone oculare del delitto, durante il dibattimento, ricostruisce così quella manciata di secondi: “Ero sullo stesso marciapiede su cui camminava D’Antona. Ho visto un uomo e una donna che stavano aspettando qualcuno e poi parlavano con questa persona. Io ho proseguito. Ho superato via Adda ma, dopo qualche metro, ho sentito dei colpi sordi. Mi sono girato a guardare e ho visto una ‘pistola lunga’ e poi l’uomo che continuava a sparare mentre l’altro uomo era già a terra”. Secondo la deposizione processuale della pentita Cinzia Banelli, l’uomo che continuava a sparare era Mario Galesi che, armato di una pistola semiautomatica calibro 9×19 senza silenziatore, faceva fuoco su D’Antona, svuotando tutti i 9 colpi del caricatore e infliggendogli il colpo di grazia al cuore. Conclusa l’azione i due si allontanano dal luogo del delitto: l’uomo verso via Basento dove sale in sella a un motorino ’50’, mentre la donna cammina ancora lungo via Salaria, incrociando un secondo testimone oculare che la descrive con: “I capelli corti e lisci, castano scuri, attaccati al volto e pettinati con la riga in mezzo, occhi grandi, piuttosto scuri e faccia grassottella”. I soccorsi che arrivano poco dopo sul posto trasportano D’Antona al Policlinico Umberto I dove, alle 9.30, il medico ne dichiara la morte. Poche ore dopo l’agguato, in un documento di 14 pagine stampate fronte retro, con tanto di stella a cinque punte e a firma Nuove Brigate Rosse, arriva la rivendicazione.

Rispetto ai modelli di rivendicazione, utilizzate dai brigatisti negli anni di piombo, oltre alla scomparsa della classica dicitura SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali), l’espressione ideologica coniata dalla stesse BR, sostituita da “Borghesia Internazionale”, si rileva un netto peggioramento dello stile e della qualità letteraria e una maggior tortuosità nell’espressione. Anche qui, come in quella del delitto Biagi, vi si individua una certa logica criminale dell’Organizzazione che progettava di colpire uomini dello stato e personalità cardine, legate ad un contesto di ristrutturazione del mercato del lavoro.

Per l’omicidio del giuslavorista sono rinviate a giudizio 17 persone: dieci di loro per banda armata e gli altri sette per banda armata e omicidio. Il primo processo si conclude il 1º marzo 2005 quando, il gup Luisanna Figliolia, condanna all’ergastolo Laura Proietti e a vent’anni di reclusione Cinzia Banelli, entrambe giudicate con il rito abbreviato. L’8 luglio 2005, dopo 32 ore di camera di consiglio la Corte d’assise di Roma, presieduta da Marco D’Andria, emette il verdetto per gli altri brigatisti alla sbarra e condanna alla pena dell’ergastolo Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma. Pene minori, invece, per gli altri componenti, tutti assolti dall’accusa di concorso nell’omicidio e ritenuti responsabili solo di associazione sovversiva: nove anni a Paolo Broccatelli, nove anni e sei mesi a Diana Blefari Melazzi, quattro anni e otto mesi Federica Saraceni, cinque anni a Simone Boccaccini, cinque anni e sei mesi a Bruno Di Giovannangelo e a tutti i cosiddetti detenuti irriducibili che dal carcere di Trani avevano rivendicato l’omicidio: Michele Mazzei, Antonino Fosso, Francesco Donati e Franco Galloni. Per Alessandro Costa, Roberto Badel e i fratelli Fabio e Maurizio Viscido c’è invece l’assoluzione. La seconda Corte d’assise d’appello di Roma, nelle due sentenze del 1º giugno e del 28 giugno 2006, conferma gli ergastoli per Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma e riduce le condanne a Laura Proietti (vent’anni), alla pentita Cinzia Banelli (dodici).

Ribaltata invece la sentenza di primo grado per Federica Saraceni che, assolta in primo grado dall’accusa di concorso nell’omicidio, viene invece giudicata a parte e condannata a ventuno anni e sei mesi dalla seconda Corte d’assise d’appello, il 4 aprile 2008, ritennendola responsabile di questo particolare reato. Assolti, in via definitiva, Alessandro Costa e Roberto Badel a cui si aggiungono tutti gli irriducibili del carcere di Trani: Michele Mazzei, Antonino Fosso, Francesco Donati e Franco Galloni.

Nell’ultimo grado di giudizio, il 28 giugno 2007, la Cassazione conferma sostanzialmente le sentenze della Corte d’appello: ergastolo per Morandi, Mezzasalma e Lioce e l’assoluzione per i 4 irriducibili Fosso, Donati, Galloni e Mazzei per cui viene respinta la richiesta di un nuovo processo. Confermate le condanne definitive anche a Federica Saraceni (ventuno anni e sei mesi), Laura Proietti (vent’anni), Cinzia Banelli (dodici), Simone Boccaccini (cinque anni e otto mesi), Bruno Di Giovannangelo (cinque anni e sei mesi) e Paolo Broccatelli (nove anni di reclusione), i giudici hanno ridotto la pena ad Diana Blefari Melazzi (da nove anni a sette anni e sei mesi)

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