Parmigiano. I risultati del Consorzio. Ingannati due terzi dei consumatori Usa

ROMA – Questa ricerca , condotta su 1.236 americani tramite un questionario on line di 7 domande che non aveva alcun riferimento al Parmigiano Reggiano o all’Italia, è stata  presentata  l’11 dicembre 2015 a Roma nella sede di Aicig, Associazione Italiana Consorzi Indicazioni Geografiche.

A  inizio 2016 sarà presenta a Bruxelles,  per sostenere i negoziati TTIP in tema di tutela delle Dop. I risultati dell’indagine  dimostrano inequivocabilmente come i consumatori americani vengano tratti in inganno da pratiche commerciali scorrette per non parlare del  palese danno per i produttori italiani , titolari della Dop più contraffatta ed  imitata nelle denominazioni che circolano negli Stati . I dati non lasciano dubbi: per il 66% dei consumatori statunitensi, infatti, il termine “parmesan” non è affatto generico – come sostengono, invece, le industrie casearie americane – ma identifica un formaggio duro con una precisa provenienza geografica, che il 90% degli intervistati indica senza alcun dubbio nell’Italia. L’indicazione spontanea è poi stata approfondita. 

“Abbiamo mostrato agli intervistati due confezioni di “parmesan” made in Usa – ha  spiegato  il direttore del Consorzio del Parmigiano Reggiano, Riccardo Deserti – di cui una senza richiami all’Italia e l’altra caratterizzata da evidenti richiami al Tricolore. Già nel primo caso il 38% dei  consumatori ha indicato il prodotto come formaggio di provenienza italiana, ma la situazione è apparsa ancora più grave di fronte alla confezione caratterizzata da elementi di “italian sounding” (ad esempio la bandiera tricolore o monumenti e opere d’arte italiane): in tal caso, infatti, il 67% degli acquirenti americani è convinto di trovarsi di fronte ad autentico prodotto italiano”.

“Un inganno – ha sottolineato il presidente del Consorzio, Giuseppe Alai – che negli Usa colpisce decine di milioni di consumatori e che costituisce un grave pregiudizio all’incremento delle nostre esportazioni e, conseguentemente, un danno palese anche per i nostri produttori. La battaglia aperta in sede di negoziati TTIP  non sarà certo facile, perché  quelle 100.000 tonnellate di prodotto che circolano negli Usa sono irregolari alla luce della legislazione europea sulle Dop, ma non vengono ancora considerate tali dall’industria e dalla legislazione americana”.

 Paolo De Castro, coordinatore S&D e relatore per il TTIP della Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo ha spiegato che tra l’Europa e gli Stati Uniti in materia di tutela delle indicazioni geografiche c’è una differenza  abissale per cui  fare una battaglia sul tema combattendo sull’aspetto giuridico è perdente  ma potrebbe essere vincente invece spostare la visuale dal produttore al consumatore. Gli americani sono molto avanzati sui diritti dei consumatori e poiché  in questo caso  si tratta di pubblicità ingannevole. Quindi  non bisogna fare  una lotta sul termine Parmesan ma sulle evocazioni ingannevoli per  il consumatore. Ne abbiamo già parlato  in alcune sedi  e persino i più intransigenti rispetto al tema europeo delle indicazioni geografiche faticano a non darci ragione. Il Consorzio formulerà  specifiche richieste negoziali in ambito Ttip a Bruxelles nei primi mesi del 2016 e ciò potrebbe servire a cambiare le cose non solo per il Parmigiano ma per tutti gli altri prodotti italiani. E’ molto importante – ha concluso De Castro – che l’Europa tenga alta l’attenzione sulle indicazioni geografiche, cosa di cui fino a ieri non interessava  a nessuno neanche in Europa, visto che riguarda pochissimi Paesi. Oggi abbiamo con il commissario Malmstrom, che è molto attenta, una occasione da non perdere. 

Gli Usa si collocano al terzo posto (dopo Germania e Francia) nella classifica delle esportazioni di Parmigiano Reggiano. Negli States, infatti, nel 2014 sono giunte 6.597 tonnellate di Parmigiano Reggiano, corrispondenti al 17,8% delle esportazioni complessive (44.000 tonnellate), e nei primi otto mesi del 2015 si è registrato un incremento del 28,8%, ed è proprio questo flusso in crescita che potrebbe letteralmente esplodere se venisse quantomeno ridotta la quantità di prodotto che negli Usa si richiama esplicitamente all’Italia.

 

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