La strage del neonazista norvegese. Cinque anni per non dimenticare

Luglio 2011, cinque anni fa. E due tragedie diverse per proporzioni, gravità e impatto mediatico, ci mancherebbe altro, ma ugualmente significative di un disagio e di un malessere sociale ormai galoppante in tutto l’Occidente, probabilmente frutto della nostra opulenza, del nostro avere tutto e non saperci godere più nulla, della nostra incapacità di cogliere la ricchezza dell’altro e di valorizzare noi stessi senza spavalderia né eccessive pretese.

Utøya, un’isoletta norvegese sulla quale un fanatico neonazista, Anders Behring Breivik, aprì il fuoco sui giovani labouristi riunitisi per un campus estivo all’insegna della buona politica, dello stare insieme e di un po’ di sano divertimento.

Quel folle che vedeva nell’eccessiva apertura mentale del Partito Labourista al governo una minaccia per l’Europa, in quanto l’allora premier, oggi segretario generale della NATO, Stoltenberg aveva una posizione sul tema dell’immigrazione improntato all’accoglienza e al buonsenso, quel folle colpì vigliaccamente un gruppo di ragazzi animati da mille sogni e innumerevoli speranze, con l’intento inconfessabile di far sì che altri loro coetanei accantonassero quello spirito umano e civile e si chiudessero in se stessi e nella squallida grettezza da lui auspicata.

Breivik, probabilmente, non intendeva fare proseliti: sapeva benissimo di non potere, che le sue idee non sarebbero state né seguite né, per fortuna, tanto meno capite o assecondate; intendeva, però, strappare a quella giovane e vivace comunità di gemme pronte a sbocciare il diritto di credere nella possibilità di provare a costruire insieme un mondo migliore, impedendo che il loro esempio limpido facesse scuola e che quella visione sana e pulita delle cose divenisse positivamente contagiosa.

Voleva sterminare le idee prima ancora che le persone, voleva colpire al cuore un simbolo prima ancora che una comunità, voleva provare a far trionfare la barbarie e l’abisso sulla civiltà e sull’apertura mentale ma gli è andata male. Cinque anni dopo, infatti, le settantasette vittime della sua malvagità (comprese le otto uccise da una bomba messa sempre da Breivik davanti al Regjeringskvartalet, il quartier generale del governo a Oslo) sono ricordate come martiri della democrazia, della passione e dell’impegno civile mentre lui è considerato, a ragione, un delinquente e un soggetto che genera quasi compassione, tanto è pietosa la sua ignoranza e la sua miseria morale.

Voleva iniettare i germi dell’odio e invece, solo pochi mesi fa, nella vicina Svezia, una ragazza di colore ha avuto l’ardimento di sfidare apertamente, a testa alta e con il pugno chiuso, un corteo di neonazisti, i quali, di fronte al suo coraggio, sono stati costretti a fermarsi, vittime della propria vigliaccheria collettiva e della dissoluzione istantanea di quell’effetto branco che solitamente arma la loro ferocia e le consente di esplodere.

Voleva renderci peggiori e, per quanto negli ultimi cinque anni di motivi per pensare che la nostra società si sia notevolmente incattivita ce ne sono a iosa, non è riuscito fino in fondo nel suo intento.

Voleva distruggere la pianta del labourismo in Norvegia mentre oggi l’uomo che più rimase scosso da quella mattanza guida l’alleanza militare atlantica, a dimostrazione che sentimenti, valori e semi di civiltà sono comunque più forti e resistenti dei predicatori d’odio.

Non credo, l’ho scritto già altre volte, che riusciremo a vincere la battaglia contro i jihadisti dell’ISIS, per il semplice motivo che quella furia inaudita, quella trasformazione di una religione di pace in un’ideologia di morte, attraverso la manipolazione ad hoc compiuta per decenni da autentici fautori della guerra di civiltà fra l’universo cristiano e quello musulmano, quel virus letale si è radicato anche in luoghi nei quali mai avremmo creduto che potesse attecchire e, pertanto, sarà difficile trovare un antidoto in grado di annientarlo in breve tempo. Credo, all’opposto, che gli esaltati come Breivik siano destinati ad avere vita breve, in quanto almeno dal fondamentalismo sedicente cristiano sembriamo essere riusciti a vaccinarci.

L’altro dramma, assai meno importante ma comunque degno di nota, che ci colpì in quei giorni fu la morte, a soli ventisette anni, di una cantante tormentata e dal carattere tutt’altro che semplice come Amy Winehouse, capace tuttavia di esprimere nella sua arte una poesia e una dolcezza che è difficile trovare al giorno d’oggi.

Faceva abuso di alcool, aveva mille vizi, era una persona fondamentalmente sola cui la carriera fulminea, la ricchezza, la fama e le luci della ribalta non solo non erano state d’aiuto ma si erano trasformate, all’opposto, in una sorta di prigione.

E così ci disse addio, dopo una bevuta fatale, inserendosi sottovoce e in punta di piedi nel racconto planetario di una carneficina che aveva lasciato senza parole milioni di persone in ogni angolo del pianeta.

Volle testimoniare, per l’ultima volta, di essere esistita e, personalmente, interpretai quell’addio sussurrato, quasi annunciato ma senza alcuno squillo di tromba come una scelta di tempo, pur sapendo benissimo che la concomitanza dei due eventi fosse puramente casuale.

Mi piace pensare che Amy abbia scelto di regalare la sua ultima canzone, il suo ultimo pensiero a quei ragazzi e che ora stia cantando per loro e con loro, in quell’isola chiamata Paradiso dove tanti destini si intrecciano e tante storie si ritrovano. La gioia di vivere e lo spleen, la felicità e lo strazio interiore, due misfatti diversi in tutto e per tutto eppure accomunati dalla concomitanza e dal fatto di averci costretto a ragionare, ancora una volta, su quanto possa essere effimera, e talvolta ingiusta, la vita.

Sessantanove ragazzi di vent’anni e una ragazza di ventisette: i primi vittime del disegno delirante e assassino di un farabutto il cui unico coraggio stava nelle pallottole e nel sadismo con cui le esplodeva, la seconda vittima di se stessa e della propria incapacità di vivere o, forse, di accettare il concetto stesso di vita.

Cinque anni per ricordare, per tenere viva la memoria, affinché nessun dettaglio di quei giorni vada perduto e, soprattutto, si tenga sempre a mente fin dove possono spingersi il cupio dissolvi e l’aberrazione umana, specie quando si presentano sotto forma di fragilità.

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