Cervelli in fuga: Laura Soucek, il sorriso sulla baia

La scorsa estate sono stato negli Stati Uniti. San Francisco, West Coast. La California l’avevo sempre immaginata calda, visto che Terminator da ragazzini se ne andava in giro per i canaloni di Los Angeles a maniche di camicia e fucile a pompa accanto alle marmitte della Harley. All’aeroporto invece l’aria aveva cominciato a punzecchiarmi con una miriade di dita fredde e una foschia lattiginosa si era appiccicata sul parabrezza del taxi lungo tutti i saliscendi che mi avevano portato al Sunset.

In quindici giorni la baia è stata sempre immersa nelle nuvole. La mia ragazza ormai ci si era abituata. Lei la nebbia non la vedeva nemmeno più, dopo qualche mese il suo orologio biologico aveva cominciato a sincronizzare lo sguardo sull’oceano solamente quando il sole e il vento spazzavano via l’ovatta. Allora il ponte si faceva rosso e le macchine in fila piccole che non si vedevano nemmeno. Funzionava sempre così.
Una mattina mi sono fatto un giro nei laboratori del Cancer Research Institute, University of California, San Francisco (UCSF). Uno dei tempi mondiali della ricerca in area medica. La mia ragazza mi ha presentato i suoi colleghi. Ci siamo stretti le mani, guardati con un po’ d’imbarazzo. Una mi ha detto: “Piacere, Laura. Laura Soucek”. Timida, come gli altri. Quando ha cominciato a parlare l’impaccio ha fatto subito la stessa fine della foschia lungo i tralicci del Golden Gate. Zanzibar, Tanzania. Le sue vacanze in un racconto veloce, dettagliato, con ogni cosa al posto giusto. A dispetto del cognome l’italianissima Laura parla con inflessioni da autentica madrelingua. Tira dritto tra mangrovie e coccodrilli che sembra un film d’avventura, uno di quelli con una bella fotografia, educativo, che resta dentro a lungo. Un lampo esplode in mezzo al discorso riportandomi a una decina di anni prima. Roma, “La Sapienza”; io cresta sparata in aria nelle aule occupate a fare baldoria e fuori il mito di una dottoranda geniale che stava facendo cose incredibili con proteine antitumorali.

Vabbé, saluto tutti ed esco con la testa piena di ricordi elettrici ma piacevoli. Passo davanti la parete dei premi Nobel; doppio petto, stempiatura, lenti da lettura all’occorrenza, sorriso sincero.
Il cielo brilla lungo le cromature sporche della moto. Volevo una Harley, mi ero fissato con la mitica 883, ma il tipo che le affittava (un anziano tedesco emigrato durante il piano Marshall con tanto di foto d’epoca su Guzzi d’epoca) mi aveva offerto questa. “I’m sorry, eight-eight-three is busy till next Friday!”
Colpetto metallico del cavalletto, pulsante messa in moto, meccanica imperfetta che suona Grunge. Ce ne andiamo scoppiettando per gli stradoni di San Francisco che sembra di stare al Luna Park. Usciamo fuori città, ci lasciamo alle spalle la baia in direzione Muir Woods National Monument. Le sequoie sono addirittura più belle di certi documentari del National Geographic. Bisogna pure stare attenti con lo sterzo che la strada è stretta, piena di curve e con le teste dei “Giants” tra le nuvole. Andiamo piano per goderci meglio lo spettacolo. Un filino di gas e si passeggia per il paradiso. Le Dunlop da asciutto sfiorano l’asfalto manco fossero babbucce. A dispetto dell’altitudine il bicilindrico emana un calore da forno a legna che “Schwarzi” aveva avuto l’occhio lungo quella mattina ad uscire di casa così leggero. Ho continuamente in testa Laura Soucek, altroché. La sua voce si muove tra i tronchi fuligginosi (sopravvissuti a catastrofi geologiche impensabili), buca il tappeto sonoro e si infila dritta nella mia mente. Daniela dice che Laura è una persona straordinaria. Le credo, faccio il loro stesso mestiere e raramente mi è capitato d’incontrare persone brillanti tanto simpatiche e piene d’interessi in un mondo, quello della ricerca, colmo di menti ottuse. Gente che sa godersi la vita, i tipi come la Soucek, che va dritta al sodo, che ha idee, visioni d’insieme, globali. Ricercatori che non hanno bisogno di passare l’intera esistenza chiusi in un laboratorio. Gente che parla con un collega mai visto prima di mangrovie e coccodrilli con lo sguardo dritto verso l’orizzonte.
Facciamo un giro strano ai piedi di una corona rocciosa, in cielo un’aquila ci tiene d’occhio. L’aria è nitida, la moto perfetta. Daniela racconta di esserci già stata lì. Un picnic con Laura e Jonny lo scorso anno. Mettiamo la foresta dentro gli specchietti e scendiamo in picchiata verso la costa. Le lancette salgono in zone mai esplorate prima. L’aria ci sconvolge e diverte. L’oceano è bellissimo, l’highway una lingua d’asfalto perfettamente liscia. A Roma Laura aveva cominciato il suo lavoro con un piccolo progetto di tesi. Myc è una proteina scoperta dal premio Nobel John Michael Bishop nel 1982 con un ruolo chiave nella crescita tumorale. Rallento, ho un po’ di strada libera davanti, mi abbandono ad un rapida panoramica lungo le mille tonalità dell’oceano.

 

Nella seconda metà degli anni Ottanta lo scienziato Evan Gerard pubblica i risultati di un nuovo ruolo molecolare scoperto per Myc. Quest’importante proteina è anche in grado di indurre morte cellulare programmata. Laura finisce la sua tesi, si laurea a pieni voti, le sue scoperte vengono pubblicate su importanti riviste scientifiche. Studia a fondo Myc, la natura di questo fattore, l’interazione con altre proteine pro-tumorali, collabora con il gruppo statunitense di Evan Gerard. Brucia le tappe Laura, semplicemente perché è un tipo in gamba, un enfant prodige della biologia molecolare. Chi lavora con lei la descrive come una ragazza piena di vita, d’interessi, allegra, cordiale. Sbaglio svincolo, viaggio sopra il viaggio, i cartelli indicano Santa Cruz; andiamo avanti, tanto l’America è grande. Prima di partire per gli USA Laura testa una proteina sintetizzata durante il dottorato di ricerca all’Istituto di Biologia e Patologia Molecolari del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma. La chiameranno “Omomyc”, una proteina strutturalmente speculare a Myc in grado di legarsi ad essa e bloccarne il funzionamento. Laura comincia ad ipotizzare possibili implicazioni terapeutiche. Una bomba. I primi risultati sono sconvolgenti. Lavorando su cellule cresciute in piastra Omomyc inibisce Myc, l’agente pro-tumorale. È fatta! Laura vola a San Francisco. I suoi studi si concentrano tutti su questa nuova proteina di sintesi dagli effetti “miracolosi”. Il modello funziona! Per lei sono anni di lavoro e affermazione in ambito scientifico a livelli sempre più alti. Premi alla carriera, pubblicazioni su prestigiose riviste internazionali come Nature e Nature Medicine. È il sogno di qualsiasi scienziato, sconfiggere il grande male.
Il giorno dopo ci vediamo tutti al Buba Gump, un posto dove i camerieri girano tra i tavoli vestiti come il Tom Hanks sempliciotto di annata. Ho mille domande, tutte scientifiche. Finiamo invece a parlare del film col cameriere che ci fa domande a trabocchetto: “Come si chiama il cane di Forrest Gump?” Mentre al di la dei vetri, sulla baia, un cielo meraviglioso ci ricorda che qualsiasi riepilogo possibile è ancora molto lontano.

È trascorso quasi un anno da quel giorno. Ora Laura vive e lavora a Barcellona, lontana dal Golden Gate, al Vall d’Hebron Institute of Oncology, dove continua la sua lotta. Una lotta serrata, lunga e piena d’insidie. Una lotta che affronterà ancora col sorriso sulle labbra e lo sguardo rivolto verso un orizzonte sereno.

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