A mente fredda. Riflessioni dopo la sentenza di Perugia

RAVENNA – Innocenti o Colpevoli? Devo dire che rispetto alla sentenza di Perugia, con cui i sei giudici popolari e i tre togati, hanno mandato assolti Raffaele Sollecito e Amanda Knox, l’unico sentimento che riesco a provare è la pena e la solidarietà per la famiglia della vittima. Così composta nel dolore e nella consapevolezza che nessuna sentenza potrà riempire il vuoto lasciato dalla morte di Meredith ma che, comunque, aspetta una sentenza definitiva “per perdonare, dice la madre  e, perché – ripete – senza giustizia non ci può essere perdono”.

Insomma, alla necrofilia interessata e anche un pò imbecille dei numerosi anchor men-women che non hanno atteso un minuto per gettarsi sulla notizia, in nome dell’audience e per guadagnare punti di share in una fase delicata un pò per tutti (poveracci), voglio rispondere soltanto con alcune riflessioni, “a mente fredda”, come sempre tutt’altro che disinteressate e, anzi, profondamente di parte.

La prima questione che mi viene in mente è riferita a Rudy Guede. L’unico – al momento -vero colpevole, per sua ammissione, visto che ha patteggiato una pena a 16 anni che oggi, in mancanza di complici e sodali, chiede la revisione del suo rito abbreviato. Baipasso, volutamente, la fondatezza e l’ineluttabilità delle prove a carico del “nero” per concentrarmi su una domanda che al di la dei Codici e delle Procedure, sta tutta inscritta nella sua confessione che si vorrebbe, da parte dei suoi legali, assumesse ora un diverso rilievo alla luce dell’assoluzione dei “concorrenti”.

Limpido esempio di abnegazione professionale, non v’è che dire ma, al di la delle correità che, in ogni caso, non si iscrivono al denominatore, si vuole forse far intendere che l’orrore diviso per tre è meno orrore di uno tutto in capo allo stesso assassino? Non voglio montare in cattedra ma, verrebbe da dire: “Si accontenti il Guede dell’ottimo lavoro fatto dal suo avvocato che, nonostante tutto, è riuscito nell’impresa di evitargli un ergastolo a cui la folla perugina l’avrebbe voluto volentieri inchiodare”.

E questo a maggior riprova che nel sistema giudiziario italiano, non serve avere un avvocato dal nome altisonante, principe del foro basta, altresì, averne uno che sappia fare il suo mestiere. Certo, la sentenza di Perugia dimostra, una volta di più, se ce ne fosse ancora bisogno, che una bianca, mediamente benestante, figlia dell’America opulenta, con un nome molto simile a quello del luogo dove sono conservate le riserve auree di mezzo mondo e il suo ex fidanzatino che può permettersi i servigi dell’avvocata di Andreotti, presidente della Commissione Giustizia della Camera, hanno più speranze di farla franca del povero negro. Ma se l’avvocato sa fare il suo mestiere anche il negro ha buone possibilità di non beccare l’ergastolo, nonostante le evidenze.

Il sistema funziona, insomma! Con buona pace di tutti i “principi del foro-parlamentari” patrocinatori del premier, che hanno bisogno di scriversi in parlamento leggi su misura; dei molti detrattori di oltre oceano, compresa la stessa Segreteria di Stato americana.
Altro che sentenze già scritte e giudizi preconcetti. La sentenza di Perugia, dimostra ai numerosi miscredenti, che il sistema è idoneo e più che collaudato. Non sarà in grado, forse, di fare giustizia ma, certamente, non fa danni e non manda in galera innocenti.

Tale fatto a tutti i garantisti del globo non dovrebbe che far piacere visto che nel mondo, ancora, esiste un posto dove i giudici – togati o meno – in caso di dubbio esercitano il diritto, non tanto in nome del popolo sovrano (vociante e indignato fuori dall’aula) ma a vantaggio dell’imputato.

Dimostra anche, ma questo mi piace un pò meno, che il sistema è molto sensibile alle pressioni esterne. Ma, in fondo che importa quando si restituisce alla vita libera due anime innocenti quantunque con il “beneficio del dubbio”?

E qui parte l’ultima riflessione; rispetto, ovviamente, alla “credibilità” d’un sistema giudiziario siffatto. Un sistema dove basta avere i soldi (si è parlato di 1 milione di dollari) per permettersi un avvocato che “tenga botta” e sappia, allungando il brodo, titillare l’attenzione e l’interesse dei media – sempre affamati di coup de theatre e di buone “sceneggiature” su cui raccattare pubblicità, così da farli intervenire a difesa dei propri assistiti.

Certo, c’è poco da stare allegri dal punto di vista delle parti lese, in un sistema giudiziario che consente pressioni psicologiche così forti sui giudici chiamati ad esprimersi nel merito; che consente ad un avvocato mediatico di giocare un ruolo d’interdizione ovvero, di pubblica accusa, a seconda dei casi, oppure consente agli imputati di diventare le star del loro personalissimo reality mediatico-giudiziario. Ma tant’è: “meglio 10 colpevoli fuori che un solo innocente in galera”.

Così, grazie a questo bistrattato sistema giudiziario, la Knox – sulla cui parola non discettiamo – neanche quando promette di tornare in Italia per il processo in Cassazione, può solo considerarsi fortunata ed per questo che ci permettiamo di offrirle alcuni spunti di riflessione.

In primo luogo le chiediamo di considerare la fortuna di essere cittadina di un Paese che non concede mai, figuriamoci a ridosso di una campagna presidenziale, alcun tipo di estradizione. Né quando si tratta di omicidi plurimi (come nel caso dei capitani dei marines responsabili della strage del Cermis), né in caso di omicidio “semplice” come in relazione all’uccisione di Nicola Calipari ad opera del soldato Mario Lozano.

La seconda riflessione che ci sentiamo di suggerire alla Knox, è su come fornire anche al povero Sollecito il suo stesso “salvacondotto”. Chissà, forse sposandolo – ora che ha ricevuto tutte le ottime offerte di lavoro di cui si parla – anche per accelerare l’iter per il riconoscimento della “Green Card”.

Infine, ci permettiamo di invitare la nostra nuova “collega” (a quanto sembra la Knox, proprio oggi, ha ricevuto l’offerta di fare da portavoce alla Vivid Entertainment) a perorare nel suo Paese la causa del nostro sistema giudiziario, riabilitandolo dopo le denigrazioni a cui il nostro premier l’ha sottoposto quando ne parlò con il presidente Obama.

Non dovrebbe risultarle un compito troppo sgradito, soprattutto se sfrutta l’occasione per riflettere sulla “botta di culo” di non essere stata processata nel suo democratico e civile Paese dove, con una condanna in primo grado, non solo non avrebbe potuto sperare nella revisione del processo ma, quasi sicuramente, avrebbe subito la stessa sorte di Troy Davis, che nonostante la ritrattazione in aula di ben 9 testimoni oculari, quasi nessuna prova a suo carico e i numerosi dubbi manifestati dagli stessi investigatori che lo arrestarono 23 anni fa, ha incontrato la sua “iniezione letale”, in un carcere di Jackson, in Georgia, lo scorso 21 settembre.  

Lo so, forse le appariremo dei biechi nazionalisti ma, nonostante la nostra fatica nel sentirci italiani, proprio continuiamo a non digerire che i cow boy, senza storia e, alla luce dei fatti, anche senza futuro, possano venire a fare la morale ad uno dei paesi più antichi e, se lor signori la smettono di manipolare Costituzione e Giurisdizione, più civili del mondo.

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