Venezia 1761. La strana morte del Conte Priuli

VENEZIA – Oggi l’attuale metodologia di indagine investigativa prevede che sulla scena del crimine vi sia sempre la presenza del medico-legale, al fine di fornire le preziose iniziali ipotesi su modalità e causa della morte. Con l’evoluzione delle scienze, tuttavia, questa figura è coadiuvata da numerosi altri esperti ed il responsabile della scena del crimine coordina al fine di ottimizzare la quantità e la qualità delle informazioni.

Nel Settecento, durante il periodo della Serenissima, la figura del medico-legale già esisteva e spesso offriva soluzioni a problemi non solo sulla causa della morte ma anche sulla dinamica della stessa, risolvendo brillantemente i vari casi.
Sono le 23 della sera del Sabato 1761. Fuori regna il silenzio della campagna di Spinea, un piccolo centro fuori Venezia. Siamo nella residenza di campagna dei conti Priuli, oggi conosciuta come villa Saviane-Volpato. Antonio Carrara, gastaldo della villa, sta bussato da qualche minuto alla porta della stanza del nobile Francesco Priuli, ma nessuno gli risponde.

-Eccellenza c’è una lettera per lei
Nessuna risposta. Vicino a lui c’è il figlio che gli suggerisce di forzare la porta, magari non quella principale ma una piccola laterale che sarebbe stata più facile da aprire. E’ strano che non si sia ancora svegliato e che non risponda. Dopo alcuni minuti di indecisione il gastaldo con una spallata rompe il catenaccio ed entra nella stanza. Intimorito dal silenzio richiama il padrone.
-Eccellenza Francesco
Gli scuri e le finestre sono chiuse ed ha bisogno di alcuni istanti per adattarsi all’oscurità. Il letto è vuoto ma si accorge che Francesco Priuli è accanto alla finestra.
-Eccellenza la toga sta lettera
Aveva fatto tutto questo per consegnargli quella lettera ma il suo padrone non si muove, non parla.
Il figlio gli offre il lume e con un fascio di luce illumina quella figura immobile.
Il nobile Francesco Priuli ha le ginocchia leggermente flesse, gli occhi sono spalancati e la lingua è parzialmente fuori, attorno al collo ha un laccio che si aggancia alla maniglia della finestra, leggermente aperta. Il colore decisamente paonazzo e quegli occhi vitrei, privi di luce, non lasciano dubbi. E’ morto.
In un caso in cui a morire è un nobile non bisognava commettere errori nella valutazione. Quindi, dopo lo sgomento iniziale, il gastaldo manda a chiamare subito il Podestà di Mestre il quale arriva poco dopo con il chirurgo ed alcuni soldati.
Antonio Gritti, pubblico chirurgo di Mestre, varca la soglia di quella stanza, rimasta intatta dopo la macabra scoperta. Si fa aiutare da un garzone a sciogliere il laccio che stringe il collo magro dell’impiccato e lo ripone a terra. Consegna il laccio al Capitano dei soldati che lo reperta come prova. Inizia a scrivere il suo referto: “Il cadavere è di un uomo di statura piuttosto bassa, con capo ignudo, vestito di camicia sottile con meneghetti, comesso bianco senza maniche, braghesse di faccina neve, calze in piedi di seta color di perla e scarpini bianchi in piedi con fibbie di metallo dorato, di pelo nero, sbarbato, d’età di 35 anni circa”. Poi lo spoglia e lo esamina, li in quella stessa stanza, con i testimoni composti dalla stessa servitù di casa.
Dopo una decina di minuti è pronto a scrivere nuovamente: “nessuna lesione a riserva di una sola profonda impressione, che circonda tutta la parte superiore del collo fatto dall’accennato cordone, da cui è cinto il collo medesimo dal quale rimase soffocato”.

Per lui è morto suicida, ma c’è un piccolo problema, un dettaglio non trascurabile, come poteva il cadavere toccare il pavimento a tal punto da avere le ginocchia flesse ed essere morto per soffocamento ?
Il 31 agosto il podestà di Mestre invia una lettera al Consiglio dei Dieci. Trattandosi della morte di un nobile era preferibile che fosse il Consiglio stesso ad occuparsene. E cosi accadde.
Fu interrogata tutta la servitù ma tutti diedero la stessa versione dei fatti. Il nobile voleva riposare e si era ritirato nella sua stanza, chiudendosi a chiave. Ma le testimonianze sono concordi anche su di un altro punto. Il nobile Francesco Priuli, non era sano di mente. A raccontarlo è lo stesso gastaldo della villa, Antonio Carraro. Il Priuli era convinto che tutti ce l’avessero con lui, quella settimana aveva tenuto un comportamento alquanto strano. Ad esempio la mattina del mercoledì corse dietro al figlio del garzone urlandogli:” tutti me minchiona, non fe altro che minchionarme”, senza un vero motivo. Il giorno successivo lo aveva trovato a giocare con dei cani, prima gli lanciava il bastone e poi quando i cani si avvicinavano li bastonava. I fratelli, che abitavano in un palazzo a Venezia presso San Giovanni Novo, avevano chiesto un consulto ad un medico di Mestre, il quale aveva diagnosticato una strana frenesia curabile con l’uso delle sanguette. Ma quando gli furono applicate andò urlando per casa che perdeva tutto il sangue e che sarebbe morto, chiedendo urgentemente un prete che venisse a benedirlo la sera stessa. L’ultimo episodio, si svolse il giorno prima della tragedia. Quel giorno Francesco andò in chiesa a Spinea ma durante la messa ad alta voce disse che il cappellano invece di benedirlo lo aveva maledetto, continuò ad urlarlo fin tanto che usci di corsa dalla chiesa. Gli stessi fratelli confermano quando gli investigatori avevano sentito. Francesco spesso andava di qua e di la senza proposito, era convinto che tutti lo burlassero, non voleva dormire ne di giorno ne di notte. A volte cantava, poi parlava e poi urlava. Sin dai dodici anni era di animo malinconico.
E’ chiaro che tutto questo può giustificare un suicidio ma non spiegava ancora le strane modalità con le quali fu trovato il cadavere.

E’ lo stesso chirurgo Gritti a dare la spiegazione e a risolvere il mistero. Quando quella sera era entrato nella stanza con il cadavere ancora appeso, si era reso subito conto di alcuni dettagli. Nei pressi della finestra aveva visto un piccolo scagno o tamburino con segni di terra lasciati dall’impronta di una scarpa. Aveva anche notato che il cordone era stato preso da una borsa da viaggio che si trovava sempre nei pressi del cadavere. Quindi, aveva dedotto che la dinamica poteva essere solo la seguente: Francesco, quando entrò nella stanza, la chiuse a chiave, poi prese il cordone dalla borsa di viaggio, avvicinò lo scagno e ci salì sopra. A quel punto aveva passato la corda attorno alla maniglia della finestra, che era chiusa, poi attorno al suo collo ed infine si era dondolato fin tanto che lo sgabello non era caduto rotolando distante. Il peso del corpo aveva allungato il cordone, che era leggermente elastico, e dopo qualche tempo lo stesso peso aveva piegato la maniglia della finestra che si era aperta, diminuendo ancora di più la distanza da terra.  Nessun mistero, nessun intruso ma un semplice suicidio se si può considerare semplice un atto simile. Un ultimo interessante dato riguarda un antenato di Francesco Priuli, anch’esso chiamato con lo stesso nome che a causa di una forma endemica di depressione, si suiciderà nel tardo autunno del 1513 a soli ventotto anni gettandosi dall’alto di una finestra. Attorno a questo Francesco Priuli ci sono stati numerosi eruditi studiosi che gli attribuivano una raccolta di novelle denominata “Refugio de’ mixeri” tutte storie caratterizzate dal suicidio finale dei protagonisti. Le analogie tra i due Francesco Priuli sono quantomeno inquietanti.

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