Intervista a Roberto Cotroneo, un karma da scrittore

Uno dei più importanti autori italiani racconta con onestà il suo “mestiere di vivere”

D.  Quando hai pensato per la prima volta di diventare scrittore?
R.C.   Non ho pensato per molti anni, anche quando facevo il giornalista culturale, di diventare scrittore. Avevo in mente di fare il critico letterario, di scrivere saggi. Il primo romanzo l’ho pubblicato a 35 anni, era il 1995 e da otto lavoravo all’Espresso. Da ragazzo mi sarebbe piaciuto diventare regista cinematografico ma all’Espresso mi occupavo di libri: li recensivo e parlavo dei libri degli altri. “L’Indice”, il primo libro edito nel 1991, era una raccolta di recensioni. Nel 1995 avevo fatto un contratto con la Mondatori per un saggio su Chopin e quando mi sono messo all’opera mi sono accorto che si trattava di un romanzo. Così pubblicai “Presto con fuoco” e divenni romanziere.

D. La tua famiglia ti ha incoraggiato sulla strada della letteratura?
R.C. I miei erano medici. Mia sorella maggiore medico. La mia famiglia non mi ha dissuaso né incoraggiato. Non so dire se mio padre avrebbe preferito facessi medicina o rimanessi ad Alessandria dove vivono loro. Il tipo di cammino che ho fatto è autonomo. I miei non mi hanno  ostacolato e sono contenti della mia scelta.

D. Chi sono i tuoi maestri letterari?
R.C. L’incontro più importante è stato quello con Umberto Eco quando avevo diciannove anni. Eco è stato un punto di riferimento per tutta la mia vita e la mia carriera. Se invece parliamo di autori letti nell’adolescenza Stevenson, Salinger, Elliot, tra gli italiani ho avuto una passione particolare per Gadda.

D. L’incontro con la prima casa editrice è stato facile?
R.C. E’ stato facile perché ero in una posizione di privilegio di potere. Quando ho cominciato a pubblicare ero capo delle pagine culturali dell’Espresso e i miei rapporti con gli editori erano da pari a pari. Non ho mai scritto sperando di essere pubblicato, sono stato sempre inseguito dagli editori perché scrivessi per loro. Non ho mai avuto l’esperienza del libro proposto e rifiutato. Appartenevo all’establishment culturale. Anche se non lavoravo  in una casa editrice, lavoravo all’Espresso:  un giornale molto importante.

D. Hai scritto “Se una mattina d’estate un bambino. Lettera a mio figlio sull’amore per i libri”. Che rapporto hai con i tuoi figli?
R.C.  Un rapporto cambiato negli anni perché sono cresciuti. Avevo da piccoli un rapporto stretto e intenso. Oggi ho un rapporto stretto e intenso, che tiene conto del fatto che sono adolescenti di diciotto e quattordici anni. E’ un buon rapporto. I miei figli sono, con l’andare degli anni, sempre più un punto di riferimento. Li vedo il più possibile, anche se ultimamente con fatica, perché gli adolescenti sfuggono un po’.

D. Hai vinto il Campiello con “Presto con fuoco”, che ha come protagonista un grande pianista. Che rapporto hai con la musica?
R.C. Ho iniziato a studiare pianoforte che ero molto piccolo. Ho continuato a suonare per molti anni. Tuttora possiedo un pianoforte che, devo confessare, suono poco. Ho avuto con la musica un rapporto forte dovuto al fatto che era l’ attività di svago dei miei anni infantili e adolescenziali. Viaggio sempre con la musica dietro, l’ascolto in cuffia. Per me è uno degli elementi veri e importanti dell’ esistenza.

D. Quale dei tuoi libri ami di più e perché?
R.C. I libri sono un po’ come i figli, per cui non ami di più il primo invece che il secondo o, meglio, non dovrebbe essere così. Se dovessi andare a cercare quello che amo di più, non è per un motivo qualitativo letterario, ma perché laboratorio di un momento che si è amato. Certamente “Otranto” è quello a cui sono più affezionato. “Otranto” ha avuto una scrittura di una semplicità straordinaria, è un luogo dove io ho una casa e una serie di ricordi affettivi trasferiti nel romanzo. Obiettivamente è  il libro che meglio mi corrisponde.

D. Adesso cosa stai scrivendo?
R.C. Un libro che al contrario di “Otranto” mi porta fatica: ne ho scritto solo sessanta pagine. E’ di nuovo sulla musica. Dedicato a un musicista amato e maledetto, morto nel 1989, Chet Baker. La storia racconta che in realtà non è morto ma si nasconde in un luogo, il protagonista va a cercare questo vecchio trombettista con un passato di droga e disperazione ma con un talento particolare per la tromba e poi… quello che verrà dopo non lo so ancora.

D. Un personaggio lo si sceglie perché lo si ama. Come mai proprio Chet Baker con questa vita estrema?
R.C. Perché Chet Baker aveva una grazia assoluta nel far musica e un’esistenza assolutamente maledetta. A me piaceva il contrasto: il fatto che fosse angelico nel suonare e di tutt’altro tenore come persona. E’ il miracolo del genio e dell’artista:  può essere umanamente discutibile ma straordinario nella sua arte. Non credo però che un artista debba essere necessariamente sofferente.

D. Tu sei anche direttore del corso di giornalismo e di molti master creativi della Luiss: l’insegnamento e un prolungamento del tuo amore per l’arte e del mestiere di giornalista?
R.C. Io non ho più un buon rapporto con il mestiere di giornalista,  è molto lontano da quello che  sono diventato e dal mio tipo di sensibilità. Del mestiere sono stanco,  preferisco insegnarlo e insegnare: è il modo migliore per restituire agli allievi quel che si sa, dargli una forma di preparazione. Mi sono divertito a fare il giornalista e l’opinionista,  ora preferisco che le mie opinioni vengano trasmesse ai più giovani. Non mi piace pontificare dalle prime pagine dei giornali

D. Come passi il tempo quando non lavori?
R.C.  A questa domanda avrei risposto più facilmente cinque o dieci anni fa, adesso lavoro sempre. Una volta suonavo il piano, ora lo suono un po’ meno.  Possiedo un cane:  è un patore bernese,   si chiama   Shiva e mi piace portarlo a spasso. Mi piace la buona televisione, oggi con i canali digitali si possono vedere cose interessanti. Cerco di stare con miei figli tutte le volte che posso. Mi piace molto andare al mare, anche se mi riesce sempre più difficile. Il lavoro comunque per me è   divertimento.

D. Cosa ti fa arrabbiare di più?
R.C. La superficialità, la scorrettezza, il parlare a vanvera. Più che arrabbiare, mi preoccupa l’incapacità di capire che abbiamo la responsabilità delle generazioni più giovani; che abbiamo disimparato a trasmettere valori, competenze, conoscenze. Mi fa arrabbiare il non essersi posti il problema etico di costruire per loro una società migliore, li abbiamo lasciati soli. Se ci saranno disastri nel futuro la colpa è nostra.

D. Tu hai scritto “Il vento dell’odio”, un libro sugli anni ’70. Quanto c’è adesso deriva anche dalle difficoltà di quegli anni?
R.C. Abbiamo archiviato gli anni ’70 appena ce ne siamo liberati. Anche se, eccetto rari e drammatici casi, non assistiamo più ad atti terroristici come allora, ritengo che la violenza sia una cosa sommersa che esiste tuttora. Oggi c’è una violenza di dibattito politico inaccettabile per un paese civile. Penso che il terrorismo venga a sua volta da troppi nodi irrisolti che hanno origini lontane: dal fatto che abbiamo avuto per vent’anni una dittatura, dalla resistenza e dal fatto che l’uscita da un regime dittatoriale fascista è stata di maniera. Quando sento Berlusconi dire “i comunisti”, penso che non siamo riusciti a superare quelle diversità di posizioni che hanno reso questo paese zoppo. Come quando certa sinistra radicale insiste su temi vecchi e inattuabili ritengo non abbiamo risolto nulla, nemmeno il terrorismo. E’ stato risolto a livello di ordine pubblico e processuale, non il motivo per cui quelle cose accadevano. La storia degli ultimi cinquant’anni non è stata riletta sino in fondo.

D. Cosa ti piace invece della nostra epoca?
R.C.  La tecnologia perché è un modo per rendere più semplice la vita. Oggi sono possibili cose un tempo impensabili.

D. Pensi che un giorno sarà comune leggere sul’IPad dei romanzi?
R.C. Probabilmente non sarà l’IPad, diventato nel frattempo altra cosa. Io non sono tra quelli che pensano che la carta  scomparirà, però ritengo che nessuno fermerà il cammino della tecnologia digitale.

D. Tecnologia e scienza evolvono e si perfezionano più dell’animo umano?
R.C. Non c’è una tecnologia e una scienza se non c’è dietro un animo umano. Steve Jobs, guru della tecnologia, amministratore delegato di Apple, ha detto: “Darei tutto il mio patrimonio per passare un pomeriggio con Socrate”. Cioè non possiamo fare a meno di tradizione e cultura, ma neanche  di ciò che giorno per giorno accade per migliorare la nostra vita quotidiana.

D. Hai fiducia nell’uomo?
R.C. Ho negli uomini una ragionevole fiducia, non sono pessimista.

D. Essere uno scrittore noto che problemi comporta?
R.C. Quello che le persone ti confondano con i tuoi libri. Hanno aspettative e proiezioni della tua immagine già decise, cosa che di solito non avviene con una persona di cui non sai nulla.

D. Temperamento artistico, cultura, sensibilità rendono più facile la vita?
R.C. Dovrebbero. Quando non sono uno schermo per nascondere cose sbagliate. Non ho mai pensato che un artista debba necessariamente essere umanamente spregevole perché l’arte giustifica tutto. Abbiamo avuto persone disdicevoli che facevano cose meravigliose. Non le voglio giudicare dal punto di vista artistico ma umano. Non mi piacerebbe avere un figlio matto e infelice che compone opere straordinarie rendendo felici persone che non lo conoscono neanche. Meglio semplicità e ottimismo, anche senza talento, piuttosto che un talento che fa si che ci si distrugga piano piano. Meglio il talento positivo, che migliora coloro a cui dai i tuoi prodotti e  te stesso.

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