Poesia. No woman’s land. Diario di bordo del non detto

“E sentirsi cadere come una foglia, libera, imminente all’ autunno, è solo sentore. La resurrezione è tacita e dolce, e porta i segni luminosi di un celeste peccato.”

 

Assonante, questo estroflesso ascolto del sentimento dell’ io lirico di Irene Ester Leo, quanto dissonante è la percezione palpabile di un intimo vuoto misterico, non consolatorio, mai sordo ai richiami del divenire.
Il Magnificat inaugurale innalza quasi a fenomenologia epistemologica la raccolta poetica della ricerca, ça va sans dire, di una collocazione diacronica del sè nel mondo, irradia con fiochi bagliori di istintuale denuncia il cammino che la giovane autrice intraprenderà nei versi successivi, inerpicandosi in esplorazioni gutturali, semiotiche, mnemoniche, pungolando il lettore barocco con figurazioni misticheggianti e carnali, in una raziocinante smania di interpretazione conoscitiva della Terra delle terre, che è il subconscio di ciascuno, la meta di molti, il feticcio di pochi, la patria di nessuno.

“Mi sono moltiplicata nella paura della mancanza,
ho cercato il mondo,
indossandole appena
le formiche dei colli rossi al tramonto.”

Ecco, dunque, la Mise en abìme della programmatica rincorsa a ritroso nel tempo, verso un senso dell’ esistere che, dilatando lo spazio e contorcendo il contatto fra i corpi, acuisce lo spaesamento intellettuale di un’ anima stilettata dalla vulnerabilità delle viscere e dal sinestetico sapore dei ricordi.

“So dell’ illusoria falce,
delle Moire e della tela,
della squarciata vittoria
che salvifica, pietrifica,
brucia,
colora,
disadorna e subbuglia,
cambia l’ aroma.”

Sono queste le elucubrazioni di un anti flaneur, di un alchimista dalla vocazione biologa, di un collezionista di francobolli del sublime.
Der Wanderer, il passeggiatore ramingo che scalpita nei precordi dell’ uomo del XXI secolo, alimenta la propria quotidianità in un fluire indefesso di chocs discontinui e urticanti, che tenta disperatamente di arginare con l’ esercizio dialogico della filosofia della scienza.
Il ricorso alla trascendenza simpatetica non appare dunque quale spinta inconsapevole verso una panacea simil religiosa, nè può esser tacciata di capriccioso edonismo nostalgicamente accattivante; lo spaesamento dell’ odierno viaggiatore non è più atto d’ accusa verso una società dal vorticoso degradarsi capitalistico, nè verso l’ atomizzazione del pensiero e la spersonalizzazione agorafobica dei corpi.  
Paradigma ultimo della filologia di questo ricercatore girovago è sempre una lucida vivisezione del sentimento della Natura, un’ analisi prospettica del rapporto con le proprie radici, culturali e ctonie, familiari e sovrastrutturali della società contemporanea, autocelebrativa per contratto, commemorativa per abitudine, meridionale e beffarda come un’ algida Chimera.

“L’ inevitabile è un personaggio con le tasche piene
di affascini, li gestisce, li ammette.
E siamo stretti, due nodi noi,
quando la notte saluta e va
e ci lascia la sagoma perfetta, tra il lino e la sete,
di un illustre inganno.”

Se la poesia non espone certamente in saldo facili istruzioni al dispiegamento del sè, Irene Ester Leo si pone, per sua stessa ammissione, quale tramite di un flusso vitalistico in perpetuo movimento, che attraversa tanto le esperienze privatissime quanto la scrittura collettiva, in un sinestetico agglomerato di energie saziato dalle assenze, riecheggiato dai silenzi, fisicamente smaterializzato nella sua concretezza, proiettato al di là di Una terra che nessuno ha mai detto.

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