Musica classica: protagonista il madrigale erotico. “Si che io vorrei morire”

Scrivere di morte fa sempre attualità, specialmente in questi giorni dove tutti fanno a gara nel misurarsi in sentimenti di umanità senza confini.  La notizia veloce e bombarola che piace tanto ai giovani capaci di condividere piatti di pasta, feste e atti osceni ha bruciato ogni senso pudico e ha succhiato senza pietà ogni possibilità d’immaginazione. Così siamo sbattuti, pubblicati, deturpati e decapitati con una bella tutina rossa in nome dell’Internet – l’unico vero Dio che tutti adorano.

S’avvicendano tra un’ascolto e l’altro le riproduzioni dei madrigali che dimostrano la competenza fascista ed integralista degli studiosi innamorati dei loro bei suoni, sedotti e farneticanti in volgari imitazioni di sentimenti che non esistono più. Poveri in canna, almeno a parole si professano appassionati e portatori di cultura coltivando platee intirizzite e turgide di esaltati alla stessa stregua degli “indemoniati” del Bataclan di Parigi.

La ricerca della sensazione forte o dello sballo s’è comunque fatta incarnata e tra le dolenti note mi risulta difficile trovare una risposta al perchè.

Qualche secolo fa esistevano persone geniali capaci di sognare ad occhi aperti, c’erano persone che raccontavano le favole ed erano talmente prese dai propri sogni che superavano l’immaginazione. Si moriva di più prima, si sapeva molto meno e questo contribuiva alla fermentazione di idee nel tentativo di volersi bene.

E’ il caso della nostra Letteratura così colma d’amore e di cose mai dette e sofferte tanto da essere paragonate alle battaglie e alle conquiste in guerra – persino la Morte diventava un atto erotico per il quale valeva la pena immolarsi.

Bramo morir per non patir più morte

E desidro che’l mio tanto dolore

Cavi quest’alma ormai del corpo fore

Tal che di me più non rida mia sorte.

Meco spesso mi dolgo di mia doglia

Dogliomi che fortuna omai non voglia

Trar quest’alma d’affanni e d’esta spoglia.

Ma poi che m’è concesso il vo’ pur dire,

Che ben può nulla chi non può morire.

Quell’aura così solenne dei nostri interpreti maschera un sentimento naturale e disloca la maggiorparte delle riproduzioni a grotteschi teatrini aulici che tracciano un confine tra oracolo ed umanità che segue la propria religione e parla con la bocca dei profeti divinamente imbrattati di calce e pece.

Il messaggio diventa chiaro, semplice avvolto di baci, emozioni e passioni.. spesso diventa esplicito e chi non può morire non può nulla.

Spesso ascolto qualche concerto che sa di prova capitale, un’esecuzione esemplare dove volano le teste nette alla ghigliottina – truci in volto, puliti ed adornati con semplici vestiti neri la solita armata di appassionati e bigotti cantautori imbracciano gli archibugi per recitar cantando l’ennesimo teatrino – di moine e gesti aggraziati degli indemoniati che sembrano pervasi dall’anima di Monteverdi che perdinci s’è incarnato e fa un mondo di versi strani, contorcendosi, piegandosi, languendo come un pulcinella vestito di bianco.

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Sì, ch’io vorrei morire,

ora ch’io bacio, amore,

la bella bocca del mio amato core.

Ahi, car’ e dolce lingua,

datemi tanto umore,

che di dolcezza in questo sen’ m’estingua!

Ahi, vita mia, a questo bianco seno,

deh, stringetemi fin ch’io venga meno!

Ahi, bocca! Ahi, baci! Ahi, lingua! Torn’ a dire:

Sì, ch’io vorrei morire!

Bocca, baci.. LINGUA torno a dire – Il piacere, in torno.. alla ricerca di quegli humori nella scoperta di quel corpo bianco (vergineo e illibato) – la bocca del mio amato core in un’orda di lussuria offre la chiave di lettura per quel bianco e dolce Cigno che cantando more…

Il bianco e dolce cigno

cantando more, ed io

piangendo giung’ al fin del viver mio.

Stran’ e diversa sorte,

ch’ei more sconsolato

ed io moro beato.

Morte che nel morire

m’empie di gioia tutto e di desire.

Se nel morir, altro dolor non sento,

di mille mort’ il di sarei contento.

Di Mille morti il dì sarei contento… ripercorrendo il filo rosso fino a Pertrarca nel Canzoniere – Hor che il cielo e la Terra – dove descrive ancora una situazione ben nota alludendo il corteggio tra Cielo e Terra – FERE e AUGELLI diventano paradisi immaginari di sessi .. la Notte porta in giro il suo carro pieno di stelle – e di grazie – in una splendida geografia del corpo in un effimera lussuria che brama nel proprio letto.

Una visione notturna complice della trasgressione di quel che mi distrugge.. sface, disfa, rovina, consuma e mi sta sempre davanti per mia dolce “pena”.

E SOL ..ambiguo tra SOLE e SOLO se non alla FERA (fessura o pertugio come racconta un’altra Villanella) m’illumino e penso.. VEGGIO, PENSO, ARDO e PIANGO… così SOL d’una Chiara fonte che viva mi disseta con dolce e amaro – pascolo nell’erotismo, mi dielggio e m’improfumo d’umori carnali – una man sola mi risana e punge (pugna).. così da solo di mille volte il giorno muoio e rinasco in quell’atto impronunciabile e libidinoso che fa arrossire l’uomo sano.

Hor che ‘l ciel et la terra e ‘l vento tace

et le fere e gli augelli il sonno affrena,

Notte il carro stellato in giro mena

et nel suo letto il mar senz’onda giace,

veggio, penso, ardo, piango; et chi mi sface

sempre m’è inanzi per mia dolce pena:

guerra è ‘l mio stato, d’ira et di duol piena,

et sol di lei pensando ò qualche pace.

Cosí sol d’una chiara fonte viva

move ‘l dolce et l’amaro ond’io mi pasco;

una man sola mi risana et punge;

e perché ‘l mio martir non giunga a riva,

mille volte il dí moro et mille nasco,

tanto da la salute mia son lunge.

Potrebbe sembrare troppo fra le righe, potrebbe sembrare follia.. ma trovo il tutto bellissimo – affascinante e nello stesso tempo elegante attraverso la musica di Arcadelt, Lasso, Festa, Monteverdi ritroviamo quei segni di un’emozione – Quindi m’assale un dubbio, m’interrogo e anche se non professo la stessa guerra e la stessa religione e pergiunta lo stesso partito dei baciati dall’intelligenza effimera – mi domando se quelli che cantano, mimano e recitano conoscono loro stessi e siano in grado di trasferire le proprie emozioni.

Mi accorgo che quei teatrini sono falsi, perchè confondono la prassi e l’abitudine di vivere con l’estetica musicale figlia degli intelletuali con la barba.

Perchè ora la barba adorna le menti di qualsiasi imbecille alla moda in un gesto senza ormai significato se Aronne e sapienza si sposano con scelleratezza e bruta ignoranza nell’interpretare un gesto, un segno e una parola che ne sarà del nostro essere cittadini del mondo ?

Trovo la musica classica assai noiosa, i concerti di polifonia da evitare come la peste perchè incapaci di darmi emozione – quasi quasi vedo a farmi tirare due schioppettate agitandomi mentre un “musicista” – quello vero – mica Allevi o uno qualsiasi – mi spara le sue note sataniche nelle orecchie violentandomi in tutti i pertugi invocando satana e i mejomortacci del mondo – ovviamente io che uno spartito lo so leggere e magari non mi sballo in discoteca per trasformarmi in uno studente modello della Sorbona che per hobby lancia estintori sulle camoniette della polizia e protesta contro le università che non gli assestano la laurea idonea – io non appartengo alla fascia degli eroi – io negro e razzista nello stesso tempo – io fuori dal mondo e dalle razze non mi rimane che stare male in una società di valori nulli e imbecilli – giudicato nei tribunali dei conservatori e delle scuole dove si sta attenti alle pari opportunità concesse ai mendicanti che si professano poeti, musicisti, architetti, medici per guadagnarsi un pezzetto di paradiso, un pezzetto di pertugio dove rifugiarsi e formarsi.. magari anche riprodursi in una caotica babele di razze e brufoli d’ogni chiesa e religione.

Questa musica è falsa – questo cantare pure – recitano imperterriti i nostri angeli musici nell’imitazione della vita e di un modello che è ormai fottuto dall’ipocrisia.

S’io fusse ciaolo e tu,

s’io fusse ciaolo e tu lo campanile,

Io spisso spisso te vurria montare,

io spisso spisso te vurria montare.

Tutto lo juorno,

tutto lo juorno po vorria cantare!

E sempre mai saltare

e spisso spisso a te vasare,

e spisso spisso a te vasare.

E poi la sera nel pertuso entrare,

e poi la sera nel pertuso entrare.

E poi la sera nel pertuso entrare,

e poi la sera nel pertuso entrare.

Io spisso spisso te vurria montare,

io spisso spisso te vurria montare.

Tutto lo juorno,

tutto lo juorno po vorria cantare!

E sempre mai saltare

e spisso spisso a te vasare,

e spisso spisso a te vasare.

E poi la sera nel pertuso entrare,

e poi la sera nel pertuso entrare.

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