“ Luana”, un racconto di Francesco Costanzo

Continuiamo con la serie di racconti brevi, scritti da vari autori. Vi presentiamo i primi due capitoli un racconto di Francesco Costanzo  “ Luana” dove vengono narrate ironicamente le disavventure di un Casanova romano …

LUANA

I

Il nostro incontro non era stato per niente casuale.
Ero andato alla presentazione di un libro di un vignettista piuttosto famoso. Non è che mi interessasse molto la presentazione del libro.
La consideravo semplicemente una delle occasioni in cui potevo praticare il mio sport preferito, la caccia alla fica.

Avevo calcolato che  in un posto come quello, alla presentazione di un libro di quel tipo, avrei avuto buone possibilità di incontrare qualche bella fanciulla tra i 25 e i 27 anni, di buona famiglia, mediamente impegnata nello studio, vestita alla moda ma non troppo, dall’aria un po’ anticonformista ma allo stesso tempo fortemente attaccata ai confort della società moderna.
E il nostro incontro non fu per niente casuale, perché così come io e altri-fastidiosi-concorrenti andavamo in posti del genere per darci all’apparenza una parvenza da intellettuali, ma in realtà per rimorchiare, anche le ragazze come Luana andavano a quegli eventi con lo stesso obiettivo.
Semplicemente le donne sono più brave a mascherare le loro reali intenzioni.
Sono attrici, le donne, attrici nate, grandi attrici.
Invece noi uomini siamo dei pagliacci mimetizzati da grandi maître à penser e ci facciamo sgamare subito.
Io poi quel giorno non tergiversai troppo.
Quella massa di capelli ricci che si muovevano in continuazione mi fecero subito sballare completamente la zucca.
Persi proprio il controllo della mia mente, perché il mio corpo si mosse senza neanche aspettare un impulso dei neuroni.
Feci dieci passi velocissimi, a tagliare la sala da una parte all’altra, passando tra la gente, sbattendoci contro, quasi a posta: in pochi istanti stavo nella rientranza del muro accanto al palco dove Luana si era sistemata in piedi nell’attesa che iniziasse a parlare l’autore.
Aveva occupato tutto lo spazio di quella splendida nicchia con la sua borsa e il suo giubbotto, oltre che con le sue gambe splendide avvolte in uno di quei jeans che si vedono nelle pubblicità in tv, quelli che stanno così bene sul culo della donna-spot che quasi ti verrebbe voglia di non toglierli mai i jeans, di trombarla così, con tutti i jeans indosso.
Mi accolse piuttosto tiepidamente nella nicchia, anzi deve proprio aver pensato “ma guarda quanto rompe i coglioni questo”.
Ma avevo buoni argomenti per sostenere l’inevitabilità della mia invadenza: tutti i posti a sedere erano occupati, il resto delle persone era in piedi e la maggior parte di loro non vedeva un tubo.
Non poteva mica accamparsi lì da sola, ci mancava solo che si apparecchiasse la tavola per mangiare.
Insomma fui indubbiamente un genio, anche perché bruciai letteralmente sul tempo almeno altri tre o quattro marpioni che avevano visto la possibilità di piazzarsi in paradiso, ma che non avevano avuto la prontezza che avevo avuto io.
Li vedevo ringhiare verso di me con le loro mascelle nervose e aggressive durante tutta la presentazione.
E più passava il tempo, più riuscivo a parlare con Luana, più godevo nel vedere i loro volti da perdenti … da dilettanti perdenti.
Quando finì la presentazione non ebbero neanche la forza per accostare una mano all’altra per applaudire.
Mentre io completavo il mio aggancio con lo scambio dei numeri di cellulare, loro uscivano mestamente di scena.
Il giorno dopo la chiamai.
Avrei voluto aspettare un po’ di più, ma non resistetti.
E le chiesi subito di uscire. Accettò di incontrarmi, per una passeggiata pomeridiana.

II

Aspettavo da dieci minuti. Non era poi tanto, le donne sono sempre in ritardo. Anzi consideravo la faccenda in modo molto positivo. Se una donna al primo appuntamento con me si presenta puntuale, vuol dire che non le interesso. Se è in ritardo, vuol dire che invece ha interesse per me.
Perché non ci credo che le donne sono sempre in ritardo, perché sono più irrazionali e perdono quindi la cognizione del tempo quando si preparano per un appuntamento.
O meglio: credo che siano più irrazionali, ma non nel caso in cui si preparano per uscire con un uomo.
Io penso che lo facciano apposta. Sono pronte esattamente per l’orario previsto, ma poi io me le immagino che si mettono lì ad aspettare dieci minuti, quindici minuti, le più sadiche anche mezz’ora.
Addirittura secondo me qualcuna più geniale ti guarda dalla finestra in quei dieci-quindici minuti. Ti osserva ti scruta, ti esamina. Vedi come sei vestito, come ti sei sistemato i capelli.
Naturalmente ti può osservare se sei sceso dalla macchina.
Se non sei sceso è dura.
Ma io scendo sempre, perché penso che se una donna vede che non scendi dalla macchina ti fa aspettare in eterno. Cioè non scende proprio.
Insomma, ero lì comunque che aspettavo tranquillo, già orgoglioso dei dieci minuti di ritardo che si erano accumulati.
Speravo che l’attesa si sarebbe allungata. Nel frattempo mi guardavo intorno.
Era la prima volta che andavo in quel quartiere.
C’erano palazzi gialli e verdi, né troppo alti, né troppo bassi.
Macchine ce n’erano tante, parcheggiate anche in doppia, tripla fila.
La mia l’avevo parcheggiata davanti a  un distributore di benzina. Era domenica, il distributore era chiuso.
E non c’era il self service.
Ero davanti al portone del palazzo. Vedevo dalle finestre le scale. Se fosse scesa a piedi l’avrei vista, sennò mi sarebbe apparsa all’improvviso uscendo dall’ascensore.
Fissavo le scale. Sembravo un mezzo Testimone di Geova, con i miei jeans un po’ scoloriti e la camicia a fiori un po’ troppo estiva.
Si affacciò da un balcone un tizio con una pancia notevole, con la canottiera sporca di vino, vino rosso naturalmente.
Mi guardò un po’ interrogativo. Io risposi allo sguardo con un alzata di occhi. Come a dire “sto aspettando una donna non si può?” Ruttò e tornò in casa.
Una radio trasmetteva la voce di tutto il calcio minuto per minuto. Ma quella domenica le partite non mi interessavano granché.
Qualcuno scese all’improvviso dalle scale, ma non era Luana.

Un cane enorme, un lupo forse, arrivò in dieci secondi netti dall’ultimo piano al piano terra.
Tirava Luana e i suoi tacchi 12. Sembrava sci nautico fatto sulle scale di un palazzo.
Arrivò prima il cane e poi lei.
Le sue zampe si piazzarono sul mio petto.
Avevo una paura fottuta, ho sempre avuto paura degli animali, dei cani in particolare.
Forse la mia strizza è eccessiva. Ma c’è gente che esagera. Una volta ho visto Italia-Nigeria, quarto di finale di mondali del 1994 a casa di amici, con il cane seduto a fianco a me, che mangiava come un cristiano e che alitava, forse devo dire, in modo più profumato di molti cristiani.
Però non potevo deluderla subito, alla prima uscita.
E quindi mi feci leccare anche un po’ il viso.
Feci il massimo per simulare, ma Luana se ne accorse che avevo paura.
“Hai paura dei cani?” disse tirandolo un po’ verso di sé, almeno quel tanto che bastava a allontanarlo dal mio corpo.
“No, in generale, no. Però certo quelli proprio grossi, diciamo che mi incutono soggezione”
In realtà non solo mi incutevano molto più che soggezione, ma mi faceva e mi fa letteralmente schifo toccare i cani, e le bestie in generale. In fondo, sono animali. Però, e chiarisco subito per tutti gli animalisti, sono assolutamente contro i maltrattamenti.
Quello che temevo comunque stava accadendo. Insomma, anche il cane usciva con noi. Lo avrei dovuto mettere in macchina.
Non che ci tenessi alla pulizia della mia macchina, però avrei fatto a meno di mischiare ai tanti odori già presenti nella mia Lupo Volkswagen, anche quello di questo cane-lupo.
Era grossissimo. Lo choc fu talmente grande che non mi ricordo bene come era fatto, né di che colore fosse.
Per fortuna lui si accomodò dietro, mentre Luana prese posto vicino a me.
Mi concentrai finalmente su di lei.
Le scarpe con i tacchi le avevo già ammirate. Adesso mi restava da guardare tutto il resto.
Mi presi una trentina di secondi per squadrarla dal basso all’alto.
Lei mi guardava divertita, io cominciavo a pensare che, forse, per quanto era bella, avrei potuto soprassedere sul cane, almeno per quella volta.
Indossava un vestito verde, color leghista. Le illuminava il volto quel verde. Era incredibile come un colore che avevo tanto detestato, quel giorno mi faceva letteralmente gioire.
Guardai le sue labbra piene e rosse. Pensavo al rosso perfetto del rossetto, al verde leghista, un’accoppiata di colori perfetta, i colori dell’Italia. Ero comunque fuori dall’orbita leghista, ma anche troppo fuori dal presente.
Mentre fissavo le sue labbra perso nei miei pensieri politici, le sentii dire “dove andiamo allora?”, ma i miei neuroni non reagivano.
Mi guardò ancora, ripetendo di nuovo “dove andiamo?”
Il cane abbaiò in modo non troppo amichevole.

Mi destai “Allora potremmo andare a Villa Pamphili … così lui può scorrazzare un po’ e noi facciamo due passi”
Acconsentì.
Avviai il motore. E partimmo. Le chiesi se la  musica poteva disturbare il cane.
Strabuzzò gli occhi.
Non stavo andando bene, quel cane aveva sconvolto i miei piani. Avrebbe potuto dirmelo, mi sarei preparato psicologicamente. O forse no, sarebbe stato peggio.
Avevo un cd dei Pet shop boys in macchina.
Lo inserii. Provai a fare una battuta sul fatto che quel gruppo con il nome di animale poteva essere azzeccato per il nostro primo incontro a tre. Rise.
Stavo recuperando.
Partì “west and girls”. Misi il volume al minimo. Nel frattempo controllavo ogni tanto il cane dallo specchietto retrovisore, cercando di non farmi accorgere da Luana.
Si era disteso completamente sul sedile, ma i suoi occhi mi fissavano, mi tenevano d’occhio.
Io lo guardavo con rispetto.
Ogni tanto mi giravo a guardare Luana. Guardava la strada. Il suo viso era sereno.
Arrivammo a un semaforo rosso.
Dovevo dire qualcosa.
“Come è andata la giornata? Hai studiato?
Si stava per laureare in giurisprudenza, le mancava un esame.
“Non molto in realtà. Oggi ho avuto un forte mal di testa”
“Capisco. Ne soffri spesso?
“Abbastanza”
Non aveva voglia di parlare del mal di testa.
Non mancava molto ad arrivare a Villa Pamphili. Potevo aspettare di essere lì, poi il cane si sarebbe tolto dai coglioni e potevo parlare tranquillamente con Luana.
Avevo un pallone in macchina.
Tirandolo con forza a cento metri di distanza, il cane sarebbe andato a riprenderlo e ci avrebbe lasciato soli. Poi quando sarebbe tornato, gli avrei fatto fare un’altra corsetta.
Avevo fatto male i miei calcoli.
Il pallone non gli piaceva per niente. E non aveva nessuna voglia di correre.
Stava attaccato a noi, un po’ ai miei pantaloni, un po’ alla sua padrona.
Ormai grondavo sudore. C’era caldo, ma non così tanto da sudare in quel modo.
Con quell’impiastro appresso facemmo 20 metri in 10 minuti.
Le chiedevo del suo ultimo esame, ma ero troppo in sofferenza per il cane.
Poi per fortuna arrivammo al laghetto.
Il cane-lupo ci si tuffò dentro e ci lasciò in pace.
Ci potemmo sedere finalmente su una panchina.
La mia sudorazione diminuì.
Sapevo che mi avrebbe chiesto ancora se avevo paura dei cani. E infatti la domanda arrivò puntuale.
“Hai propria paura dei cani eh?”
Decisi che era meglio non aggirare il problema
“Ho una paura fottuta. Poi il tuo cane  è molto, come dire … affettuoso … ci sta sempre addosso … non ci lascia un attimo di tregua.”
Rise con classe.
Probabilmente me l’ero cavata.
“Per me è molto importante. Me l’ha regalato mio padre anni fa, prima di morire”
Si rabbuiò un po’ in viso.
Mi avvicinai un po’. Le sfiorai appena il braccio con la mano.
Lei mi guardò di sfuggita negli occhi come a volermi ringraziare.
Sapevo quello che dovevo fare. Non potevo tuffarmi nell’acqua a giocare col cane. Avevo troppa paura e inoltre sarebbe sembrato troppo una recita.
Però potevo assecondare il suo sguardo melanconico e un po’ sognante che si posava sul cane. E così feci. Lo guardavo con amore. Lui abbaiava verso di noi. Non doveva essere contento di vedermi così vicino alla sua padrona. Ma intanto lo stavo fregando. Io potevo parlare alla sua padrona, lui no. E c’erano molte altre cose che lui non avrebbe potuto farle.
Restammo in silenzio per qualche minuto a guardare il cane.
Poi approfittai del momento di emozione e con uno scatto veloce presi le sue mani tra le mie.
Erano morbide, ma anche consistenti, robuste.
Avevano la vita dentro.
La guardai negli occhi per cominciare il discorso. Dovevo essere cauto.
“Posso chiederti come è morto tuo padre?”
Si stava commuovendo. E anche io avvertì una stretta al cuore.
“E’ stato un incidente con la macchina. Una macchina nella direzione opposta ha invaso la sua corsia”
La abbracciai, senza stringere, non era il caso.
Il cane ritornò. Ci buttò addosso qualche litro d’acqua, uno sicuramente arrivò dallo scodinzolamento della coda.
L’avrei annegato. Invece trovai il coraggio di fargli una carezza molto stentata. Luana rise. Aveva capito lo sforzo che avevo fatto. Si alzò sulle punte e mi diede un bacio sulla guancia.
Tornammo verso le macchina camminando mano nella mano.
Il cane ci seguiva disciplinatamente.

Aspettai qualche giorno prima di chiamarla.
Non volevo pressarla troppo…

il racconto riprenderà da dove è stato interrotto. Qualsiasi vostro commento è gradito … a presto.

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe