Palestina. Basilica della Natività, patrimonio dell’umanità

Intervsita a  Giammarco Piacenti

ROMA – «L’inserimento della Basilica della Natività di Betlemme nel patrimonio dell’umanità, avvenuto nel 2012, è il primo riconoscimento dello stato della Palestina da parte di un ente condiviso da tutto il mondo, seppur culturale. È una cosa curiosa». Lo racconta Giammarco Piacenti, restauratore e presidente della Piacenti spa, la ditta di Prato che nel 2013 ha vinto la gara d’appalto bandita dall’Autorità Palestinese per il restauro della basilica, «per un costo totale di circa 7,5 milioni di euro, tutti provenienti da sponsorizzazioni da tutto il mondo». Con Piacenti abbiamo parlato dei problemi dell’edificio, degli interventi già conclusi, di quelli in corso e di quelli che saranno necessari in futuro. Del progetto di recupero tutto italiano elaborato da Università italiane con capofila Ferrara e CNR Ivalsa. E di alcune curiosità. 

Com’è lavorare in un paese problematico come la Palestina?

«Sono da subito sono emerse le complicazioni: montare la gru, far arrivare i materiali. Nella gara noi avevamo fortunatamente segnalato che queste difficoltà sarebbero emerse in itinere, perché non si può calcolare quanto tempo impiega un container ad arrivare in Israele e quanto ci mette a sdoganarlo per farlo passare nel paese Palestina che Israele non riconosce. I ritardi però sono stati anche positivi perché ci hanno permesso di riflettere su tante lavorazioni».

Come è iniziato tutto?

«Su 12 aziende che si erano presentate alla prequalifica siamo arrivati alla fine in tre: noi, una grande azienda russa e una che ha sede in Palestina ma è di proprietà statunitense. La gara era gestita dall’autorità nazionale palestinese ma la fase di gara era in mano ad Arup, studio londinese di architettura tra i più famosi al mondo. A marzo 2013 è iniziato il bando. A maggio si è fatta la presa visione in loco. A fine luglio è stato dato l’esito di gara, il 15 agosto abbiamo firmato il contratto: inizio dei lavori 15 settembre 2013».

Quali erano i problemi più urgenti della basilica?

«Lo stato conservativo del tetto e delle finestre: abbiamo iniziato con la diagnosi di tutte le capriate lignee e la progettazione di ogni intervento di protesi delle parti che erano marce. Nelle parti delle capriate che si inseriscono nella muratura molto spesso il legno è attaccato dalla carie che l’ha completamente degradato e non riesce più a sostenere il peso del piombo e del tetto. La struttura del tetto è molto esagerata rispetto a quello che deve portare: è stata realizzata come se dovesse portare dieci di quei tetti, quindi le capriate sono molto ravvicinate e c’è legno in abbondanza».

Come siete intervenuti?

«Il tetto è stato conservato il più possibile come anche i chiodi e tutte le parti dei travetti e delle parti che ricoprivano il tetto. Sopra queste parti c’era uno strato di fango e paglia che serviva come letto del piombo, che è stato tolto. Il tetto è stato ripulito dal fango che con le infiltrazioni dell’acqua provocava colature sulle pareti: un disastro. È stato isolato dal tetto superiore con la costruzione di un tetto tecnico nell’intercapedine, che serve a mantenere quello antico e a non far passare il calore alla parte più antica. La soluzione è una ventilazione molto stretta, perché altrimenti sarebbe stata visibile dall’esterno, e non volevamo. È ridotta, ma molto funzionale. Sotto al piombo, sopra a delle tavole nuove poste sopra lo spazio di ventilazione, abbiamo posto scarti di lana purissima, senza niente di plastico nel filato: un feltro spesso un centimetro che toglie l’umidità da sotto al piombo quando si genera la condensa».

Tutto questo rientra nella prima fase dei lavori, poi si è passati alla seconda.

«Sì, andando avanti è diventato necessario passare alle pareti sottostanti e alla parte in pietra, il cui recupero è terminato proprio in questi giorni. E sono state decide alcune modifiche: per esempio è stato scelto di fare delle croci diverse, non più in legno ma in metallo, e una lieve illuminazione senza le lampadine a vista ma con un filo di led invisibile. Tante sono le cose cambiate perché a seguito di una visione diversa sono state prese altre decisioni».

Riuscirete a rispettare i tempi previsti dal contratto?

«Anche inserendo tutti questi nuovi lavori la differenza rispetto al contratto, che doveva essere consegnato a settembre 2014, è di pochi mesi, senza contare che abbiamo lavorato su oltre 600 metri quadri di restauro di pietre e la porta armena del 1227. Poi si sono poi aggiunti i lavori del Nartece: ha dei gravi problemi strutturali che ancora oggi stiamo diagnosticando. Abbiamo fatto uno scavo archeologico sopra le volte, che sono del periodo crociato, dove c’è il cedimento del muro che dà sulla piazza. In questo momento stiamo lavorando per arrivare alla copertura finale di tutto il tetto per febbraio 2015».

E dopo febbraio i lavori continueranno?

«Ci saranno sicuramente altre fasi: la basilica ha tante altre parti come le colonne, i pavimenti, che sono da recuperare. Però intanto la prima e più urgente fase, quella per impedire le infiltrazioni d’acqua, è stata conclusa. E devo dire che noi non ce lo aspettavamo così: piove raramente in Palestina, per esempio finora per sei mesi non ha piovuto. Ma nella stagione delle piogge se ne vedono delle belle: lo scorso anno, in questo periodo, avevamo montato i ponteggi all’interno e nella basilica c’erano dei veri e propri fiumi. Una cosa incredibile, mai vista».

Quanto costeranno i lavori?

«La prima parte è costata circa due milioni di euro. Le altre fasi sono, più o meno, altri cinque milioni e mezzo: mancano tremila metri quadrati di pietre, svariate migliaia di metri quadrati di intonaci, i mosaici. In totale sono circa 7,5 milioni, ancora molto indietro rispetto al budget generale che l’Autorità palestinese aveva previsto, cioè 25 milioni di dollari».

Da dove provengono i soldi per il restauro?

«Sono tutte donazioni: quasi tutto il mondo paga per questo lavoro. Quello che conta è che questa chiesa ha all’interno tre culti religiosi, il Cristianesimo (con i francescani), la Chiesa Ortodossa (che ha la maggior parte dell’utilizzo dell’edificio) e la Chiesa Armena. Fra gli sponsor ce ne sono alcuni che ci si aspetta, altri invece completamente inaspettati come banche che non sono cristiane, ma arabe. Sono sponsorizzazioni soprattutto di Stati fuorché un’azienda privata che ha dato 800 mila dollari. È una grande azienda del mondo delle costruzioni con sede anche a Betlemme, che lavora molto in Palestina e nei paesi arabi».

Prima dicevamo che la basilica è un bene Unesco.

«Sì, e questo è un fatto davvero curioso: la Palestina non è riconosciuta da stati esteri. L’Unesco però, nel 2012, ha inserito la chiesa nella lista dei beni dell’umanità. Riconoscendola come patrimonio mondiale, è come se avesse indirettamente riconosciuto lo stato di Palestina, perché nella sua lista ha scritto che la basilica è in Palestina, non che è in Terra Santa, o in Israele».

Questo articolo compare su ArteMagazine.it e Dazebaonews.it

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