Teatro Vittoria. Simone Cristicchi in “Mio nonno è morto in guerra”. Recensione

ROMA – “Immaginate la vostra terra. Provate ora a immaginarla in silenzio, senza più colori, voci, profumi: deserta. Un silenzio irreale che avvolge e ovatta tutto. Sembra impossibile immaginare una Napoli vuota senza napoletani, una Roma vuota senza romani. Bene, settant’anni fa, in Dalmazia, in Istria e a Fiume questo è accaduto”.

Inizia così uno dei racconti che hanno riempito la sala del Teatro Vittoria durante la prima di “Mio nonno è morto in guerra”, di Simone Cristicchi. Il brano, tratto da quel “Magazzino 18” salito da poco agli onori della cronaca per una protesta del pubblico finita a colpi di striscioni, invasioni di palco e accuse di nazionalismo e  criptofascismo – ci si passi il termine – è in realtà, a volerlo ascoltare, uno dei pezzi più toccanti dell’intero spettacolo. 

Si torna indietro, con Cristicchi, ai tempi della seconda guerra mondiale. Si fa il giro d’Italia, da nord a sud, perché la guerra sa essere piuttosto democratica nella sua smania di devastazione. Colpisce i bambini, gli adulti, gli anziani; colpisce i partigiani e i generali; colpisce chi parte soldato e chi resta in attesa. Colpisce i deportati nei campi di sterminio, i prigionieri nelle steppe russe o in Algeria. La guerra è di chi parte e di chi resta, di chi aspetta e di chi le sopravvive per miracolo. Ed è anche di chi a distanza di anni ne subisce ancora gli effetti, come quando ancora oggi nelle campagne piemontesi qualche mina salta tra le mani di un ragazzino mutilandolo per il resto dei suoi giorni.  

Sul palco c’è Cristicchi, ma presta il corpo e la voce a tanti altri personaggi: all’Elia Marcelli de li romani in Russia, a Rudy il Rosso, partigiano sopravvissuto a Dachau, a Carmela Innocenti, che a novantaquattro anni si è vista riconsegnare la piastrina militare di un fratello disperso in Russia settant’anni prima. È la voce dei tanti esuli che nel magazzino 18 di Trieste hanno accatastato la propria vita, abbandonandola; è quella di Alberto Orlando, che, sopravvissuto a una bomba, la vita se l’è ricostruita su un campo da calcio.

E c’è De Gregori, sul palco, c’è Fossati. C’è anche Remo Remotti, che l’idea geniale della guerra dei vecchietti l’aveva messa in musica qualche anno fa. E poi c’è lui, Simone Cristicchi, che da quando è sceso dal palco di Sanremo per salire su quello dei principali teatri italiani ha collezionato – a ragione – un successo dietro l’altro. Suo nonno è morto in guerra, racconta. Perché anche chi torna dalla guerra, vivo, “muore ogni volta che qualcuno sputa sulla nostra Costituzione, muore in questi tempi di finta pace”. 

Basta poco per temerli, questi tempi: uno sguardo alle tematiche degli spettacoli che calcano le scene da qualche anno – il pericolo dell’arrivo di nuove dittature, la manipolazione delle coscienze, la crisi economica, la violenza crescente, verbale e non – e il quadro del paese appare piuttosto fosco. Se ne sono accorti gli artisti, se ne sono accorti gli spettatori. Per questo in sala l’applauso a quello stralcio di Magazzino 18 – se anche non se lo fosse meritato – è stato lungo e sentito: perché non c’è dittatura più forte di quella che mette a tacere le altre voci per imporre la propria. E chi dice di amare il teatro questo dovrebbe tenerlo a mente.

Mio nonno è morto in guerra

di e con Simone Cristicchi
e con Riccardo Ciaramellari (Pianoforte e fisarmonica), Gabriele Ortenzi (theremin e strumenti giocattolo)
Produzione Promomusic

Al Teatro Vittoria dal 4 al 16 febbraio 2014

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