Calcata Film Festival. “Il cinema dell’immigrazione”, occasione di confronto e crescita

CALCATA (VITERBO) Un’importante occasione di confronto e la possibilità di guardare la realtà che ci circonda da altri punti di vista e, magari, rivedere i propri.

Questo il forte messaggio partito dal “Calcata Film Festival” che con la rassegna “Il cinema dell’immigrazione” sta in questi giorni portando nella sala del Teatro Comunale di Calcata Nuova una selezione di lungometraggi e cortometraggi che raccontano l’incontro con l’“altro”e riflettendo sul Cinema, la sua storia e il suo linguaggio, con lezioni e mostre, dopo aver reso omaggio nella prima settimana al territorio di Calcata (che ospita il festival), di Mazzano Romano, del Parco Regionale della Valle del Treja e della vicina Faleria, location di centinaia di pellicole, con la rassegna “Il cinema nel parco… e oltre”.

E mentre mancano tre giornate alla chiusura della rassegna (terminerà il 2 dicembre) che sarà affidata alle opere di Amin Nour, Paolo Negro,Max Nardari, Carmine Amoroso, Gaston Biwolé, Kassim Yassin Saleh e Salvatore Allocca e alla lezione di cinema “Nuove tendenze e tecnologie” tenuta dallo scrittore, sceneggiatore e regista Carmine Amoroso, è già tempo di un primo bilancio su quello che abbiamo visto finora.

Ad aprire la rassegna sono stati il cortometraggio “Un caffé con Antonella” di Sade Patti e “Il cammino della speranza” di Pietro Germi(1950), «per ricordare quando i migranti eravamo noi e attraversavamo come nel film di Germi le Alpi per raggiungere la Francia e fuggire dalla fame con le stesse difficoltà e paure» – come ha sottolineato il direttore artistico, Franco Mariotti nel presentare la rassegna.

Il dibattito che ne è seguito ha visto coinvolti il sindaco di Calcata Sandra Pandolfi, Letizia Bartocci della cooperativa Splendid del viterbese e due ragazzi sotto protezione umanitaria assistiti dalla cooperativa che hanno raccontato la loro storia al pubblico presente. La storia di Adolf, che dalla Costa D’Avorio è fuggito dalla persecuzione religiosa e ha affrontato il terribile carcere in Libia per tre mesi vivendo in condizioni inimmaginabili in quattrocento in una stanza, prima di affrontare quel viaggio verso le coste italiane che spesso finisce in tragedia e le preoccupazioni di George che finito il tempo dell’accoglienza sarà lasciato solo con un permesso elettronico, ma senza un programma di inserimento sociale e lavorativo e l’impossibilità di lasciare l’Italia per cercare di costruire un futuro altrove in Europa.

Con “Le ali velate” di Nadia Kibout e “Ameluk” di Mimmo Mancini, la rassegna è entrata nel vivo, spiazzando da subito gli spettatori. “Le ali velate” colpisce per la maturità stilistica e affronta il rischio di cortocircuito dell’identità femminile migrante stretta tra la cultura di provenienza e le altre che si incrociano nella propria vita. L’autrice di origine franco-algerina Nadia Kibout ha risposto alle domande del pubblico dopo la proiezione del cortometraggio, raccontando il suo lavoro, ma anche diversi episodi biografici di lei, nata e cresciuta in Francia da una famiglia araba laica e residente in Italia da alcuni anni. «Una grande importanza deve essere data al ruolo dell’educazione al confronto con l’altro – ha sottolineato la regista e attrice – Lo sento particolarmente con mio figlio, nelle parole degli altri bambini che magari ripetono quello che sentono a casa, a scuola, in certe trasmissioni».

Diverte e fa riflettere “Ameluk” di Mimmo Mancini, che con un taglio da commedia restituisce uno specchio di tanti vizi italiani e non. La storia si svolge in un piccolo paese con le elezioni comunali alle porte. Il protagonista è Jusuf, un ragazzo giordano che vive nella comunità collaborando con tutti. Nonostante la sua disponibilità, Jusuf viene semplicemente “tollerato”, fino a quando, fomentato da interessi politici locali, verrà fuori il malcelato e strumentale razzismo della comunità in cui vive e alcuni difetti presenti in quella di provenienza. «Il migrante in Italia viene visto spesso come “buono” e tollerato solo se sta zitto e sa prendere ordini – ha commentato Nadia Kibout che del film è anche interprete – quando poi reclama qualche diritto diventa subito malvisto, una sorta di ingrato».

Il terzo giorno della rassegna è stato aperto nel pomeriggio da due attese e partecipate “Lezioni di cinema”. La prima del direttore della fotografia, Roberto Girometti dedicata alla “Conservazione e restauro del patrimonio cinematografico e audiovisivo”, che ha condotto i presenti in un viaggio nella storia del Cinema all’insegna della curiosità, dello stupore e della passione. Il primo film proiettato dai Lumière a Parigi nel 1895, l’entrata del treno in stazione, e un frammento a colori di un film del regista e illusionista Georges Méliès, considerato a tutto diritto il padre degli “effetti speciali” nel cinema, hanno fatto da canovaccio a un racconto ricco di aneddoti, particolari tecnici, esperienze di lavoro.

La seconda lezione, “Giuseppe De Santis e il neorealismo italiano”, è stata invece affidata al regista, film-maker e critico cinematografico Claudio Sestieri che, dopo un’introduzione di Franco Mariotti sulla figura del regista di “Riso amaro”, tra gli altri , è ripartito proprio dai Lumiére e da Méliès, «che sono in realtà le due facce del cinema fin dall’inizio, il realismo e l’immaginazione», chiarendo fin dall’inizio cosa si intende per “neorealismo” in genere e perché contenuto e forma lo differenzi dal “semplice” racconto delle passioni e dei dolori dell’umanità presente in molto cinema anche americano. «Sono abbastanza convinto che non tutto il neorealismo sia uguale e che De Santis sia un neorealista fino a un certo punto – spiega Sestieri – ne condivide i contenuti, ma gira con i mezzi e il linguaggio del grande cinema americano con una fortissima attenzione all’uomo e al paesaggio facendo ricorso nel suo cinema a elementi formali estranei al neorealismo, come l’uso del dolly, del pan-focus, di gru, o dal punto di vista contenutistico introducendo elementi come l’erotismo».

Dopo le lezioni di cinema, si è tornati al cinema da vedere con il cortometraggio “Timballo” di Maurizio Forcella, dove la preparazione della prelibatezza culinaria che dà il titolo a questo cortometraggio finirà per un piccolo incidente domestico affidata alle poco sapienti mani di Omar, Dragan e Samir che però salveranno la tradizione abruzzese arricchendola fortuitamente con un cous cous.

Il regista Rodolfo Martinelli Carraresi e Isabel Russinova, autrice del testo e protagonista de “Il popolo di Re Heruka”, scelgono invece di immergere gli spettatori in un viaggio fatto di musica, balli, leggende, teatro e documentario. Elementi che ne “Il popolo di re Heruka”concorrono tutti a formare un originale e poetico racconto dei Romànì, il popolo forse più perseguitato della storia. «Questo film nasce dalla voglia di conoscere, dalla curiosità anche personale di capire un po’ di più di questo popolo dalle origini antichissime vittima da sempre di un fortissimo pregiudizio», ha spiegato al pubblico l’attrice Isabel Russinova che nel film porta avanti il racconto con grande forza espressiva accompagnata dalla fisarmonica di Marco Lo Russo. «Non è stata nostra intenzione fornire allo spettatore una tesi – ha sottolineato il regista Rodolfo Martinelli Carraresi – ma il tentativo di offrire un contributo alla conoscenza di molti degli aspetti che raramente vengono raccontati di questo popolo e che contribuiscono alla comprensione di molte delle contraddizioni del presente».

La rassegna arriva a metà del suo percorso con i corti “Stanza 8” di Mattia Riccio (due coppie, una italiana e l’altra migrante, si trovano a condividere la sala d’attesa di un ospedale durante le operazioni dei rispettivi figli e un destino che li legherà al di là dei pregiudizi), “Il primo che passa” di Martin P. Ndong Eyebe (un’auto rimasta in panne in una zona remota e priva di copertura telefonica costringe il protagonista Enrico a fare i conti con se stesso accettando un passaggio che non vorrebbe prendere); il videoclip musicale di Davide Iannuzzi “Le temps passe” della cantante italo-somala Saba Anglana, e il documentario “Io sono qui”; il documentario del regista Gabriele Gravagna, co-fondatore del collettivo On The Road Again Pictures, che segue la storia di Dine, Magassouba e Omar, tre ragazzi ospiti dei centri di prima accoglienza Azad ed Elom di Palermo gestiti dall’Associazione Asante Onlus e supportati dall’UNICEF.

Altri tre appuntamenti chiuderanno quest’anno la rassegna “Il cinema dell’immigrazione” e saranno lae proiezioni di “Ambaradan” di Paolo Negro e Amir Nour  (giovane ragazzo di origine africana adottato da una famiglia romana, nelle contraddizioni delle periferie romane si trasforma in un estremista di destra); “Uno di noi” di Max Nardari (una giovane coppia che non può avere figli riesce ad ottenere dopo anni l’affidamento di un bambino. Enrica è felicissima, mentre il marito Riccardo rimane turbato dalla provenienza del piccolo); Cover boy di Carmine Amoroso (Ioan, a seguito degli sconvolgimenti del 1989, decide di lasciare Bucarest ed emigrare in Italia, dove la sua vicenda si intreccerà con quella del precario Michele);“A special day” di Gaston Biwolé e Kassim Yassin Saleh (Thomas, africano con idee rivoluzionarie, lavapiatti in un ristorante di Roma convoca i suoi amici in un locale di Trastevere per annunciargli l’adozione di un bambino dell’est Europa); “Idris” di Kassim Yassin Saleh (ferragosto in una piscina comunale, Idris, piccolo profugo somalo sopravvissuto a un naufragio nel Mediterraneo, è costretto a socializzare con una ciurma di bambini e ragazzi dai cinque ai quattordici anni dal passato problematico); “Taranta on the road” di Salvatore Allocca (Amira e Tarek, due profughi tunisini prendono un passaggio da una band salentina verso la Francia).

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