Teatro Tor Bella Monaca. La “casa di donne” della Maraini: sulla scena intimità e speranza

A volte il teatro ha la capacità di restituirci l’intimità di una stanza, di quell’interno della casa in cui restare scoperti e dunque esposti. Cosa accade se questa intimità appartiene a una casa di prostitute? Dacia Maraini firma la pièce andata in scena al Teatro Tor Bella Monaca il 14 e 15 gennaio e racconta in Una casa di donne la storia di Manila, Erica, Marina, portate sul palcoscenico grazie alla sensibilità e all’audacia di Ottavia Orticello e con la regia di Jacopo Squizzato.

In un unico corpo di donna prende forma tutto il complesso universo di incrinature dell’anima delle tre coinquiline, raccontate dall’unica voce narrante di Manila che rivela se stessa e – al tempo stesso – mille altre. Quella che dal buio della scena si svela è una giovane donna tormentata, apparentemente libera nella sua scelta di prostituirsi, ma presto resa fragile, piccola, rotta nel suo corpo che da esuberante, osceno, diviene improvvisamente chiuso, serrato, stretto nei denti digrignati dalla rabbia. Manila è laureata in filosofia, ma il giorno della sua laurea, invece di festeggiare, si trova a percorrere furiosamente le strade che incontra nella sua fuga dalla madre “carnefice”, fino a ritrovarsi in un abbraccio-scontro con una donna ferita che sarà per lei determinante. Da qui inizia la sua vita di prostituta, condivisa con la “cattiva” Erica e la fragile Marina.

Il suo racconto alterna momenti di lucidità a momenti di totale annichilimento, dove il corpo abbandonato si sostiene a malapena e la testa pesa, per poi esplodere in esuberanza come fosse un corpo di bambina, fino a lasciarsi possedere da un’ebbrezza al limite dell’incoscienza. Eppure Manila sa dov’è il punto di rottura, risponde alle sue domande e alle nostre, e ci trasporta da subito nel suo passato, trascinati a forza dentro i gesti nervosi di lei che si lava insistentemente per ripulire la sua anima di bambina dalle sozzure di una madre che la costringe a sopportare – e dunque subire – la sua vita sessuale.  E il dramma dell’ingiustizia subita, fortemente sentito dalla Maraini, prende vita nella figura della lepre cacciata che tenta di sfuggire a una morte accertata. Manila piange, si stringe, trema, nel suo corpo di prostituta mentre racconta il grido della lepre in trappola che solo lei riesce a sentire: “io voglio vivere”. E sembra una bambina. Ma poi si sveste e si riveste; si toglie e si rimette le sue belle scarpe col tacco, e parla coi versi di Saffo: “io voglio morire, voglio vedere la riva d’Acheronte fiorita di loto fresca di rugiada” a cui segue il suo “io voglio morire, voglio vedere la riva del Tevere fiorita di petrolio”. Lei, moderna Saffo, fiore prezioso nutrito di libri e di filosofia che, in un attimo, si disintegra sotto il ricordo del padre morto e mai conosciuto, ridotto ad una bellissima testa bionda chiusa nel ciondolo penzolante sul petto di una madre sbagliata.

C’è tutto un mondo – al di là della voce di Manila – di uomini che si muovono attorno a questa casa di donne: non li vediamo mai, eppure sono presenti, dannatamente presenti, con la loro fisicità prepotente, vanesia, violenta, vile, assente. Sono i carnefici, gli aguzzini, gli acquirenti. Quei corpi di donne libere al punto da essere ridotte in schiavitù: “Manila, tu cerchi di acchiappare tuo padre, io lo stupratore e Marina cerca di acchiappare sua madre che sanguina”, dice con durezza Erica che, nella sua spietatezza, è l’unica a cercare le parole che giustificano, che tentano invano di restituire un senso.

Ottavia Orticello ci racconta la bellezza nel bel mezzo della disperazione. Lo fa restituendoci le sfumature di un’anima sconfitta e infinitamente delicata e preziosa nei suoi slanci di speranza. La vediamo amare, proteggere, stringere se stessa e tutte le donne in scena e tutte le donne in sala. Parla con loro, come a sua madre. Si annulla e risale, come succede solo a chi è allenato all’agone, a stringere i denti e a ridere, sorridere, anche se con dolore. La regia di Jacopo Squizzato ci restituisce il suo corpo solo su una scena spoglia che racconta senza storture un testo che, in ogni pausa, in ogni parola, mostra, senza mezze misure, la complessità dell’universo che si cela dietro il mondo della prostituzione, con l’ironia che da sempre caratterizza i testi della Maraini. E la scena nuda, senza veli, si anima del corpo e dei corpi di donne, le svela tutte e risale le generazioni, fino alle nuove, alle piccole donne che stanno per venire alla luce. Sulla scena solo una panca, spostata, sollevata, che diventa letto, poltrona, sostegno, spina dorsale. E una luce che veste e disegna i corpi sconfitti di queste donne e ne scandisce i racconti: ce le regala esuberanti e tormentate per poi celarle, in un attimo, esposte e intime.

L’argomento della pièce potrebbe trovarci distanti, giudicanti, colti sul vivo. Eppure restiamo implicati, coinvolti e anche riconoscenti. E questo accade perché ci sorprendiamo ancora della bellezza che, prepotente, sboccia e incrina il muro di ingiustizia che condanna la vita di alcuni. Quell’inspiegabile forza disperata che ci strappa alle brutture della vita e ci battezza, ancora, alla nostra umanità tenace di amore e di speranza.

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