Sala Umberto. “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, esilarante fatuità dell’apparenza

ROMA – Chiamare le cose per nome è spesso l’unico modo di farle esistere. Il nome è il luogo della conoscenza, a volte dell’intimità. La dignità di essere nominati appartiene all’identità vera o definisce ciò che appare? L’importanza di chiamarsi Ernesto – che la regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia porta in scena alla Sala Umberto fino al 24 febbraio – è l’opera di Oscar Wilde nella quale il tema è affrontato con un’ironia dissacrante, paradossale, che la rende commedia piacevole e di grande attualità.

Sulla scena, il tema del doppio è sviluppato attraverso due personaggi, giovani amici dalle storie apparentemente distanti, ma accomunati dalla stessa vocazione all’inganno: John e Algy si dividono tra la vita di città e quella di campagna, indossando nomi differenti, a seconda delle occasioni e delle donne che incontrano. John diventa quindi Ernest – nome più interessante per il richiamo semantico all’onestà – in città e nei salotti borghesi che frequenta. E così si presenta all’amata Gwendolen, cugina dell’amico e figlia della severa Lady Bracknell che ostacolerà in tutti i modi le nozze dei due. Mentre Algy decide di recarsi in campagna per conoscere e sedurre la giovane e bella Cecily, di cui John è il tutore, spacciandosi per Ernest, il fratello scapestrato – mai esistito – dell’amico. Gli intrecci, gli scambi d’identità, i giochi di parole, il paradosso fanno il resto e la vicenda giunge alla risoluzione finale tra colpi di scena e geniale ironia di Wilde.

La regia di Bruni e Frongia ci regala una commedia dai toni dichiaratamente pop: la loro firma, anche sulle scene e i costumi, mette l’accento sul tono eccentrico volto a sottolineare il paradosso, proprio dello stile e del linguaggio di Wilde. Il sipario si apre su scene bianche e luminose che fanno da tela ai colori sgargianti degli abiti e dell’arredamento, con richiami agli anni ’60 e alla cultura pop. La contemporaneità diviene un richiamo interessante attraverso riferimenti musicali che ricordano gli anni Novanta, come del resto tutta la messinscena è volutamente allineata alle sit-com del periodo.

Il tema del nome diviene il luogo nel quale analizzare l’inconsistenza di una società basata sull’apparenza, dove i valori vengono ribaltati e l’onestà, la franchezza – richiamata dal nome Ernest – finiscono per essere il risultato di inganni e bugie, dove la mediocrità diviene paradossalmente virtù da ricercarsi. La chiarezza con la quale gli attori mettono in scena il ridicolo di una vita recitata, esasperata nei gesti altisonanti, fantoccio di teatro nel teatro, genera, creando la leggerezza del distacco, effetto opposto all’angoscia che ne conseguirebbe.

Giuseppe Lanino e Riccardo Buffonini – in una recitazione elegante e spregiudicata – ci mostrano il doppio allo specchio: l’uno il contrario dell’altro e, insieme, uno immagine dell’altro, in un più piacevole e irriverente Dorian Gray da gustarsi al di là dell’imminente corruzione. Il loro doppio femminile (Elena Russo Arman e Camilla Violante Scheller) crea, nel gioco a quattro degli equivoci, l’equilibrio giusto – nel generale eccesso della messinscena – che, nel secondo atto, vince definitivamente la residua resistenza del pubblico, per poi incorrere, purtroppo, in un generale indebolimento sul finale. E i personaggi secondari – che nulla hanno di secondario, né tantomeno i loro interpreti – hanno il valore indispensabile di completare l’esilarante spettacolo di umanità variopinta.

Teatro Sala Umberto di Roma fino al 24 febbraio

Teatro dell’Elfo
presenta

IDA MARINELLI | ELENA RUSSO ARMAN

GIUSEPPE LANINO | RICCARDO BUFFONINI

LUCA TORACCA | CINZIA SPANÒ

CAMILLA VIOLANTE SCHELLER | NICOLA STRAVALACI

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNESTO

di Oscar Wilde

luci Nando Frigerio | suono Giuseppe Marzoli

 

regia, scene e costumi

FERDINANDO BRUNI e FRANCESCO FRONGIA

 

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