Intervista a Gianni Clementi: “Manca solo l’orchestra del Titanic per accompagnarci all’abisso”

Pluripremiato, pluritradotto, plurirappresentato:   “I suoceri albanesi”,   l’ultimo successo al Teatro Sala Umberto

ROMA – Testimone del suo tempo e delle molteplici tematiche che lo accompagnano nei fatti, nelle mode e nei linguaggi della società contemporanea, Gianni Clementi è uno dei piu’ annoverati autori teatrali. Pluripremiato e in perenne fermento creativo, i suoi testi sono stati tradotti in varie lingue e alcuni dei suoi lavori sono divenuti dei cult in molti palcoscenici italiani ed europei. Lo abbiamo incontrato nell’ambito della commedia “I suoceri albanesi”, recentemente in scena alla Sala Umberto di Roma, interpretata da Francesco Pannofino ed Emanuela Rossi, con un affiatatissimo cast che vede recitare anche la talentuosa figlia di Gianni.  E tra i progetti futuri anche una particolarissima pièce calciofila…

D. Gianni Clementi e “I suoceri albanesi”: da dove nasce lo spunto per la scrittura di una commedia tanto comica quanto drammaticamente attuale?

G. C. Dalla vita reale, come sempre accade nelle mie commedie. E cosa c’è di più reale della ristrutturazione di un locale ad opera di un ragazzo albanese, che in pochi anni ha messo su una Ditta in regola nel nostro Paese, si è sposato, ha 2 figli, ed ha fatto venire dall’Albania i suoi fratelli e cugini per ingrandire la sua Impresa? E cosa c’è di più reale dei cosiddetti extracomunitari, che ormai richiamano i clienti nei mercati con i loro accenti d’origine, ma tutti caratterizzati da un’irresistibile e improbabile impronta vernacolare? Questa è la nuova realtà delle grandi metropoli ed  io ho bisogno della realtà, della vita vera, della gente. Amo la vita, la gente, Roma… e proprio questa mia amata città è un po’ la sintesi dei miei tentativi di scrittura: commedia e dramma, sporcizia e poesia, rifiuto e accoglienza. 

D. Nella commedia ci sono spunti legati alla cronaca (immigrazione, disoccupazione, politica corrotta) e alle tendenze plurigenerazionali (chef, yoga, social network etc). Come si concilia questa realtà con il tuo stile?

G. C. Credo che un autore debba tentare d’essere un testimone del suo tempo e i temi, che compongono la domanda, sono il nostro  attuale pane quotidiano. Attingere dal quotidiano in Teatro è sempre molto rischioso, perché il rischio della banalizzazione è dietro l’angolo, ciò non toglie che parlare delle cose che conosciamo e condividiamo giornalmente aiuta molto ad entrare in empatia con lo spettatore. Non mi stancherò mai di ripeterlo: solo se si riesce a rendere lo spettatore complice dei personaggi sul palcoscenico allora lo spazio per la riflessione si apre con naturalezza, senza forzature. E’ il nostro inconscio che deve stupirsi per primo del sorriso involontario a sottolineare i nostri stessi difetti, vizi e manie, altrimenti difficilmente accettabili.

D. I protagonisti della commedia sono due borghesi travolti da eventi inaspettati.  C’è forse qualche riferimento all’annichilimento della classe media? Cosa pensi dell’attuale momento storico?

G. C. Beh, l’annichilimento della classe media ( ma non solo media) di cui parli è un tema che meriterebbe una risposta piuttosto articolata. Diciamo che da qualche decennio ormai  (e io  individuo l’inizio di questo processo con la trasmissione “Drive In”) è in atto questo vero e proprio progetto di progressivo abbattimento della soglia di capacità critica dello spettatore medio. Per spettatore medio intendo “noi tutti”. Ormai la TV detta regole e comportamenti, per cui anche il muratore o l’idraulico sentono l’esigenza di andare dall’estetista per depilarsi torace e cosce o farsi le sopracciglia ad “Ali di gabbiano”. I canoni estetici, anche dei piatti da mangiare, sono cambiati, la corruzione dilaga e noi, come direbbe Lucio, il protagonista de “I Suoceri albanesi” interpretato da Francesco Pannofino, stiamo andando alla deriva. Manca solo l’orchestrina jazz del Titanic ad accompagnarci nell’abisso.

D. Come hai costruito il cast? 

G. C. Il Cast, almeno per i 2 interpreti principali Francesco Pannofino ed Emanuela Rossi, mi è stato proposto da Claudio Boccaccini, il regista. Io ho  cercato di cucirgli addosso l’abito giusto. 

D. Nel cast è presente una adolescente molto inquieta,  interpretata da tua figlia. Quanto ti ha condizionato nella scrittura il rapporto con i figli?

G. C. Ho 3 figli molto diversi fra loro. Lucia Pilar, 18 anni, una ragazza estremamente responsabile, studiosa, determinata. In poche parole: la formichina della famosa favoletta/apologo. Per capirci, se dovessi affidare le chiavi di casa a qualcuno, le darei a Lucia Pilar.  Elisabetta, la seconda, 17 anni, Camilla nella commedia, è la Cicala di casa: inquieta, estroversa, casinista. Debbo confessare che sono rimasto stupito dalla sua capacità di gestire in modo molto professionale questo debutto a Teatro. Poi c’è Lucas, 13 anni, senza dubbio il più paravento. Intuitivo, sornione, capace di capire “il momento” e comportarsi di conseguenza. In questo momento della vita, seguendo le orme del padre, Monotematico. Unico scopo: diventare il regista della Roma. Con un ventaglio di possibilità così articolato, in quanto a condizionamenti per la scrittura c’è solo l’imbarazzo della scelta. Di una cosa però vado fiero: sono ragazzi che hanno ben presente il concetto di giustizia. E di questi tempi non credo sia poco. E per Giustizia intendo onestà, solidarietà, accoglienza, rispetto. Io sono cresciuto insieme alle mie 2 sorelle, Carla e Claudia, assorbendo giornalmente questo modo di essere dai miei 2 straordinari genitori: Edda e Avio. Non finirò mai di ringraziarli per aver insegnato a noi figli, non con le parole, ma con i comportamenti quotidiani cosa significhi essere una donna, un uomo, degni di questo appellativo. E non mi riferisco certo al superuomo di Nietzsche, ma a un essere capace di ignorare il tragicamente attuale motto latino “Homo homini lupus”. Spero, insieme a mia moglie, di riuscire a fare la stessa cosa con Lucia Pilar, Elisabetta e Lucas. E infine, Last but not least, c’è proprio lei: Laura, mia moglie, che il caso mi ha fatto incontrare 20 anni fa. Proprio ‘stanotte pensavo ai cacciatori d’oro che, dopo aver scavato milioni di metri cubi di roccia, trovano la loro pepita. Laura è la mia pepita. 

D. Quali  i pro e i contro di avere nella finzione due coniugi, tali anche nella vita?  Parlo di Pannofino ed Emanuela Rossi.

G. C. E’ una delle poche volte nella mia di autore che posso solo parlare di pro. Francesco ed Emanuela, oltre ad essere due grandi interpreti,  sono due persone splendide, straordinariamente generose umanamente e professionalmente, e la loro complicità affettiva non può che riflettersi  anche sulla scena. Ritengo davvero un privilegio aver potuto condividere con loro e con tutti gli interpreti di questo spettacolo dei giorni di grande divertimento ed affetto. Un grande merito anche a Claudio Boccaccini, che ha saputo, da vero Mister, costruire la squadra giusta con gli innesti di Andrea Lolli, Maurizio Pepe,e  Filippo Laganà. Come ben sanno gli appassionati di calcio, gli scudetti si vincono nello spogliatoio. Spero che anche Mister Garcia quest’anno  sia in grado di fare questo piccolo grande miracolo alchemico. Dimenticavo! Un grande, grandissimo difetto (Non possono essere mica solo rose e fiori) di Francesco Pannofino, condiviso ahimè da Andrea Lolli: sono della Lazio.

D. Perché hai scelto proprio l’Albania come terra di origine dei manovali?

G. C. Perché l’operaio vero, cui mi sono ispirato, è proprio albanese.

D. Si dice che privilegi la tragedia ma sei stato precursore di commedie brillanti. Come lo spieghi?

G. C. E’ vero, credo d’essere tendenzialmente un autore drammatico. Amo la tragedia ed ho iniziato scrivendo drammi. Ma da giovani, si sa,  in preda ad ardori da Sturm und Drang, non si può che ricorrere alla tragedia per manifestare il proprio malessere esistenziale. Crescendo, ho capito come la mia più grande aspirazione fosse vivere in serenità. Odio il conflitto e non amo chi fa del conflitto il suo motore vitale. Il mio atteggiamento nei confronti della vita è di estrema cautela. Difficilmente mi lascio prendere dall’euforia o dalla depressione. Tendo a vedere senza dubbio il classico bicchiere “mezzo pieno”, quindi tendenzialmente l’approccio è positivo, ma al contempo rifuggo l’esaltazione della conquista. Mi piace “ il viaggio”, o meglio  l’esperienza del viaggio: quella sì, mi riempie le giornate, la vita. E tendo a viverlo questo viaggio col sorriso. E’ un modo per esorcizzare il dolore. E’ esattamente il principio che applico alle mie storie,  quasi sempre tragicomiche. Nelle camere mortuarie del Verano ho vissuto uno dei momenti più poeticamente comici  della mia vita. E la vita stessa, in fondo, cos’è se non l’inconscia attesa della fine? Se si riesce a farlo col sorriso forse è meglio.

D. Quanta storia entra nelle tue produzioni teatrali?

G. C. Al passato ho dedicato vari testi, molti dei quali ambientati durante la Seconda Guerra mondiale, frutto della mia voglia di poesia, di nostalgia, dei grandi sentimenti. Poi ho sentito l’esigenza di raccontare il mio tempo e, tornando a Drive In, la poesia inevitabilmente è scomparsa, lasciando lo spazio quasi sempre al cinismo, all’avidità, alla volgarità. I miei amati romani dignitosi e pieni d’umanità non potevano che lasciare  spazio, purtroppo, ai cocainomani ipertatuati, ai traffichini in SUV oscurati, ai politici corrotti. 

D. Quanti testi (tra editi e inediti) hai sfornato e in quante lingue sono stati tradotti?

G.C. Onestamente non ho mai fatto un conto esatto dei miei testi. Credo ormai d’aver scritto una quarantina di commedie, quasi tutte rappresentate. Di inediti me ne restano al momento 3, ma sono già prenotati. Ho avuto la fortuna e il privilegio d’essere messo in scena anche all’Estero: Francia, Spagna, Austria, Russia, Grecia, Inghilterra. 

D. Qual è il testo  che ti appartiene di più?

G.C. Il testo cui sono più affezionato, per motivi familiari, è il Cappello di carta. La piccola epopea di una famiglia operaia nel 1943, in una periferia romana povera, quasi campagnola. E’ un testo di cui vado molto fiero e che ho dedicato intimamente alla mia famiglia.

D. Quali i prossimi progetti? E il cinema?

G.C Di progetti tanti. Sto scrivendo un adattamento di un famoso film per il Teatro e un nuovo copione per un importante attore italiano, ma non ne parlo per scaramanzia. Spero di terminare entro la primavera un testo, cui tengo particolarmente: Romeo l’Ultrà e Giulietta l’Irriducibile. E’ l’ennesima riscrittura del dramma shakespeariano ambientato però questa volta nelle due Curve della Capitale. Un Format di fatto, regolarmente depositato in SIAE (Non si sa mai), che può essere ambientato nelle città italiane ed europee dove la rivalità del tifo calcistico è molto accesa: Milan-Inter, Juventus-Torino, Genoa-Sampdoria, ecc…E’ un progetto sicuramente ambizioso che può divenire un grande Spot antiviolenza. E di questi tempi credo ce ne sia proprio bisogno! Vorrei provare a mettere attorno a un tavolo i tifosi di Roma e Lazio e farli collaborare nella creazione dello spettacolo, coinvolgendo anche le 2 Società. Serve un momento catartico, un po’ come l’epilogo del Dramma shakespeariano: Capuleti e Montecchi si accorgono finalmente, pagando a duro prezzo, che l’odio provoca solo tragedie. Vogliamo continuare a piangere i Paparelli, i Ciro Esposito? E’ arrivato davvero il momento di dire basta a questo modo pornografico d’intendere il tifo calcistico! Per quanto riguarda il cinema, dopo l’uscita lo scorso anno del film “Benùr”, tratto da una delle mie commedie più rappresentate, sono in vista un paio di progetti, ancora in fase di gestazione e per questo rigorosamente innominabili.

D. E la televisione ? 

G. C. In realtà ho partecipato in un paio di occasioni  a progetti televisivi, ma debbo confessare ho trovato le esperienze piuttosto avvilenti. Trovarsi al tavolo con un qualsiasi funzionario della Tv di Stato o privata, convinto di essere il fratello non riconosciuto dei Fratelli Coen, che pretende  di parlare di “snodi drammaturgici” o di climax in modo a dir poco fastidioso, mi mette di cattivo umore. Ma forse sono io ad essere incapace di entrare in sintonia con certe logiche di spettacolo, che mi sono distanti anni luce. Il vero problema credo sia la mancanza di coraggio.  Immaginate un J. J. Abrams che bussi a viale Mazzini, proponendo il Concept di “Lost”. Il funzionario di turno chiamerebbe la Neuro. A questa televisione dico: No grazie, preferisco il Teatro. 

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