Paolo di Paolo.“Lontano dagli occhi”, quella metamorfosi da figlio a genitore

Il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo porta un titolo che è evocazione e destino: tre parole stanno lì a fissarti, in copertina, a chiederti conto di distanze e assenze, a invocare risposte che non sei sicuro di poter trovare. “Lontano dagli occhi” (Feltrinelli) intreccia e conduce per mano – dentro la Roma spietata e mamma dei primi anni ’80 – tre storie di donne e uomini – diversi per età, condizione, vita – tutte sconvolte dall’evento che sta per trasformarli in genitori.

Lo scrittore approda a queste pagine intime e riservate – dalla forza istintuale propria di un diario personale – dopo esperienze più meditate e colte come “Vite che sono la tua” (Laterza), “Tempo senza scelte” (Einaudi) e “Mandami tanta vita” (Feltrinelli) – rientrato nella cinquina finalista del Premio Strega del 2013. Ma accostarsi alla vicenda di queste tre coppie presupponendone la leggerezza è un errore destinato a infrangersi nell’ultima parte del romanzo, come ci trovassimo di fronte a una di quelle fotografie familiari intrise di interrogativi e ricordi.

Di Paolo sfiora con delicatezza la complessità di sensazioni contrastanti e vere che si fanno spazio – con la stessa lenta sapienza che forma il bambino nel grembo – all’interno di una donna che sta per diventare, suo malgrado, madre. Per poi colpire, forte, laddove collassa l’immagine edulcorata della gravidanza, della famiglia, dell’amore: “come sono cambiate le cose. Non poter decidere niente. Questo scherzo orrendo che la vita può farti a diciassette anni – restare incinta è solo uno dei problemi, il primo o forse l’ultimo, ma il fatto più assurdo, più impensabile, è che non si può tornare indietro. C’era un prima. E adesso c’è solo un dopo. Il prima era la sua vita. Il dopo è questa follia per cui si ritrova sola con una pancia di quasi otto mesi, a vagare di notte per la città, e poi a piangere in una stanza squallida”.

La corrente fitta di pensieri che invade le pagine racconta la profondità di ciò che si agita in ognuno dei protagonisti. Ci restituisce il riflesso di una generazione sopraffatta dalla paura, dall’incapacità di immaginare il futuro, condannata all’afasia che imprigiona i rapporti; chiamata all’amore, ma incapace di esso: “l’Irlandese dovrebbe aiutarla. A non credere di avere le allucinazioni, a non diventare pazza. Ma allora perché non torna? Leggimi una poesia. Una poesia di qualcuno, un poeta del passato, oppure una che hai scritto tu. Ricordati tutto per me, ricordati come sono, ricordati come ero anche quando non mi conoscevi”.

I personaggi di questa storia potrebbero essere chiunque. Cecilia, Luciana, Valentina, l’Irlandese, il diciassettenne Ermes, l’orfano Gaetano, potremmo essere noi: figli di padri e madri degli anni ’80 soli e intrappolati; noi che abbiamo ereditato e fatto nostre le loro paternità e maternità mancate, desiderate, soffocate, perdute. Eppure esiste un punto preciso nel quale quel nostro figlio perso, non voluto, allontanato, ha preso in mano una penna e ha iniziato a scriverci lettere. Come fosse la prima volta.

Il bambino – o i bambini – di cui tutti parlano tra le pagine, resta celato, nascosto: si materializza in domande, ansie, rimpianti, accuse. Prende il nome di follia, macchia, onta. Eppure è carne e sangue, è spazio tra le giunture, è nausea e gonfiore alle caviglie. È parola. Perché stupisce la pietas disarmata di un io narrante che è parte viva della storia e voce di essa: non c’è giudizio o condanna, non c’è vendetta o ricatto. C’è un narratore-bambino che assolve tutti e a tutti restituisce pace: “hanno più peso le stanze in cui hai dormito, il mare dal finestrino: questo futuro che finalmente era nato e che vedevo arrivare. A banchi, come la nebbia – non sai se sei tu che le vai incontro, o è lei che ti raggiunge. E c’era tutto ciò che avrei avuto: un paio di doposci azzurri, la ruggine sulla ringhiera, il punto di latitudine e longitudine che coincide con una camera dai mobili bianchi – le ore felici, il naso nei fumetti. L’indice dei nomi della mia vita acquisita”.

“Lontano dagli occhi” è il romanzo di Paolo Di Paolo più vero e le sue pagine hanno il valore quasi documentario di una confessione. Le parole curano e, dall’alba dei tempi, costruiscono: radunano ricordi mai avuti, abbracci mai stretti, colmano assenze e le rivestono di dignità. Le parole di Di Paolo tessono racconti già uditi e mai scritti, riportano alla memoria gesti sopravvissuti al tempo e mai vissuti; tolgono via, strato dopo strato, il sedimento di dolore e speranza che abbiamo seppellito per necessità di durata. Ci ricordano che siamo stati padri, madri, figli, una volta sola e una volta per tutte. E che c’è ancora tempo per tornare ad esserlo. Come fosse la prima volta.

Paolo Di Paolo, Lontano dagli occhi, Feltrinelli, 2019, pp. 192, euro 16

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