Libri. “Via Livorno”, un’autobiografia – 2: “Coprifuoco a lume di candela”

Negli anni di guerra vigeva il coprifuoco. Lo aveva ordinato il governo per affrontare la situazione dell’ordine pubblico dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943. Nessuno poteva circolare per le strade.

Tutti in casa dalle nove di sera alle cinque del mattino. Spesso mancava la luce. Un rimedio, oltre ai lumi a spirito, era l’acetilene: una specie di caffettiera napoletana che si apriva a metà, si riempiva d’acqua con un cucchiaio di carburo, una polvere biancastra che al contatto con l’acqua “bolliva” e il gas che ne scaturiva bruciava in una fiammella esile e puzzolente. La delicata operazione di caricamento e accensione dell’acetilene era compito di mio padre: ricordo i suoi brontolii, l’odore forte del carburo che ristagnava in cucina. “Può scoppiare!” diceva allontanandomi. Ero affascinato da quell’ordigno misterioso, un po’ lampada, un po’ bomba. Ce l’aveva portato la guerra, con gli allarmi, la borsa nera, il poco da mangiare.

Come i fondi di caffè, il carburo dell’acetilene andava tolto e buttato via. Finiva nel secchio dell’immondizia, lasciato fuori sul pianerottolo. “Buonanotte al secchio”: il modo di dire oggi è dimenticato ma certo era nato in quegli anni, quando la raccolta dei rifiuti, davvero porta a porta, era compito del “mondezzaro”. L’uomo, con una divisa comunale lercia quanto imponeva il suo lavoro, la mattina presto saliva con l’ascensore fino all’ultimo piano e uno dopo l’altro vuotava i secchi in un grande sacco che trascinava scendendo a piedi. L’igiene era scarsa, ma anche i rifiuti pochi. In quegli anni non si buttava via nulla: le bottiglie di vetro, i giornali vecchi (ottimi per pulire i vetri), i tappi di sughero, un pezzo di stoffa, i barattoli di latta: tutto era conservato con cura, “Può servire – si diceva – non si sa mai”. Mia madre in questo era irremovibile. 

Oltre che dai borsari neri, gli acquisti di generi alimentari si facevano nei negozi dove ogni prodotto veniva pesato: il pane avvolto nella carta gialla, appunto da pane, come anche la frutta, le uova nella carta di giornale, dopo essere state una per una esposte in una scatoletta di legno con una lampadina all’interno e un foro circolare, a misura d’uovo: una rudimentale radiografia che accertava che l’uovo non fosse “gallato”, cioè fecondato dal gallo e in procinto di sfornare un bel pulcino. Il prosciutto, il salame, la mortadella, la coppa (a Roma in una parola gli “affettati”) venivano pesati su un foglio di carta oleata, poi avvolti in quella più pesante. Le massaie più attente sospettavano del salumiere e badavano che non abbondasse con gli involucri: “Che fai? Vendi anche la carta al prezzo del prosciutto?”. Ogni cosa, la pasta, come anche i legumi, si comprava al chilo, o più spesso all’etto, cento grammi: spaghetti, bucatini, fettuccine e soprattutto la pasta corta era conservata dal droghiere nei cassetti dei grandi scaffali che arredavano il negozio, una finestrella rivelava il loro contenuto. Per tenere in fresco i cibi in un mobile di legno foderato di zinco, antenato del frigorifero, si comprava il ghiaccio, anche quello a peso: lo vendeva il lattaio che con una specie di pugnale faceva sprizzare schegge dalla colonna, arrivata dalla Centrale del Latte sulle spalle di un addetto, caricata con la sola protezione di uno straccio di canapa grossa. Il latte si comprava nelle bottiglie di vetro opaco con lo stemma SPQR sul collo e il tappo di stagnola che il lattaio rompeva con un colpo del pollice. Erano da mezzo litro e da un litro, andavano restituite al momento dell’acquisto di una nuova. Anche il vino si comprava sciolto, con una bottiglia portata da casa che il vinaio coscienzioso sciacquava ogni volta per paura che il suo vino prendesse d’aceto. La carne, il pollo, le salsicce: il macellaio le mostrava alle clienti dall’alto del banco dal quale dominava la bottega che risuonava dei colpi di mannaia con la quale spaccava ossa, vertebre per l’ossobuco, tranciava polli e galline, affettava con coltelli dalla lama lunghissima grandi pezzi di manzo per il bollito, più piccoli per lo stufato, rimpinzava con quelli che sembravano scarti l’imbuto della macchina per macinare da cui scendeva ciò che sui fornelli sarebbe diventato un bel polpettone. Tutta carne fresca, nulla di confezionato, di preparato, di precotto: forse solo la trippa giaceva bianchiccia in una ciotola accanto alle testine di vitello o, sotto Pasqua, agli abbacchietti la cui vista regolarmente mi sconvolgeva. E a tavola non volevo mangiarne, nonostante l’insistenza di mia madre. La carne macinata ero delegato a comprarla per il cane di casa. Era la base della sua pappa fatta anche di pane secco e pasta rotta, quella che il droghiere raccoglieva dal fondo dei cassetti, prima di riempirli di nuovo. A Billy, il mio lupacchiotto, piaceva molto. 

Sotto Natale, il “mondezzaro” passava per gli auguri. Mia mamma non gli ha mai negato la mancia. Per qualche anno, ogni mese suonava alla porta anche un mendicante, un anziano vestito di povere cose ma pulite. Era l’unico al quale mia madre facesse l’elemosina, colpita dai suoi modi gentili. Anche la condizione di quel pover’uomo era una conseguenza della guerra, chi aveva perso il lavoro, chi la casa, chi la famiglia. Ma in quegli anni erano in pochi a chiedere l’elemosina, nonostante la evidente, diffusa miseria, fra le persone, anche le più bisognose c’era molta dignità.(continua)

Da “Via Livorno”, La Quercia editore, autobiografia di Sandro Marucci, giornalista RAI e tutor della scuola di giornalismo dell’università LUISS

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