Musica: il magico debutto dei Pink Floyd

Il 5 agosto del 1967 usciva “The piper at the gates of down”, il primo album della leggendaria band inglese

“Non penso che quando parlo sia facile comprendermi. Ho qualcosa che non va in testa. E comunque non sono nulla di ciò che pensate io sia. Penso che sia una cosa bella se una canzone ha più di un solo significato. Forse quella canzone può raggiungere molte più persone”

(Syd Barrett)

Il contesto culturale e musicale

L’avvenura musicale dei Pink Floyd prese il via a metà degli anni ’60, un periodo fortemente creativo e stimolante in Gran Bretagna. I Beatles, primo fenomeno mondiale erano nel pieno del loro immenso successo. Sulla loro scia una miriade di gruppi cercarono di farsi strada nei tanti piccoli locali e club di Londra. La band prese forma nel 1965, quando Syd Barrett si unisce ad un gruppo musicale di studenti dell’Istituto Politecnico di Architettura della capitale britannica. Il gruppo si chiama “The Tea Set” e in esso figurano Nick Mason, Roger Waters, Richard Wright e Bob Klose. La band riscuote un moderato successo, affermandosi come una delle più popolari formazioni dell’underground londinese dell’epoca. Quando i “Tea Set” scoprono che il loro nome è già stato usato da un altro gruppo, Barrett propone “The Pink Floyd Sound”, unione dei nomi di due bluesman: Pink Anderson e Floyd ‘Dipper boy’ Council, letti tra i crediti di un album di Piedmont blues. Dopo la dipartita di Klose la formazione vede ora Barrett alla voce e alla chitarra, Waters al basso, Wright alle tastiere e Mason alle percussioni. Syd comincia subito a scrivere canzoni, influenzato dalla corrente psichedelica che in quegli anni vive il periodo di massimo splendore, e le sue creazioni vengono riprodotte nei frequenti concerti presso l’Ufo Club, il Marquee Club e la Roundhouse, locali simbolo della scena underground londinese. Alla fine del 1966 il gruppo viene invitato a contribuire alla colonna sonora del documentario “Tonite Let’s All Make Love in London” di Peter Whitehead, con i brani “Interstellar Overdrive” e “Nick’s Boogie”, registrati nel 1967. Con l’aumentare della popolarità, nell’ottobre del 1966, il gruppo forma, assieme ai manager Peter Jenner e Andrew King, la Blackhill Enterprises, una società finalizzata alla distribuzione dei singoli “Arnold Layne” nel marzo del 1967 e “See Emily Play” nel giugno dello stesso anno. Il primo brano raggiunge la posizione numero 20 nelle classifiche britanniche, mentre il secondo scala sino al numero 6, fruttando al gruppo la prima apparizione in Tv al programma “Top of the Pops” nel giugno del 1967. Il produttore Norman Smith avverte che è il momento di sfruttare la crescente popolarità con la registrazione del primo 33 giri dei Pink Floyd.

Un debutto folgorante

Le registrazioni dell’album cominciarono il 21 febbraio 1967, nello studio 3 dei leggendari Abbey Road Studios, mentre i Beatles stavano registrando il capolavoro “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”. Roger Waters, 23 anni, Syd Barrett, 21 anni, Rick Wright, 23 anni e Nick Mason, 23 anni, si affidarono all’esperienza del produttore Norman Smith, un membro dello staff Emi che aveva coordinato tutte le registrazioni dei Beatles fino all’album “Rubber Soul”. Il produttore era l’ideale personalità per ricreare in studio la magia che i Pink Floyd sapevano offrire dal vivo con le loro rivoluzionarie improvvisazioni psichedeliche. La quasi totalità dei brani fu composta dal primo vero leader del gruppo: l’istrionico ed eccentrico Syd Barrett che è il vero responsabile della nascita del mito dei Pink Floyd anche se appena un anno dopo sarà ‘scaricato’ dal resto del gruppo per gravi problemi psichici dovuti all’abuso dell’Lsd. I brani manifesto della musica dei Pink Floyd sono “Astronomiy domine” e “Interstellar overdrive” che dal vivo poteva durare quasi venti minuti. In queste due composizioni appare maturo il concetto di improvvisazione psichedelica che sino a “Meddle” (1971), sarà la cifra stilistica e musicale dominante del gruppo inglese. I quattro musicisti su una serie di accordi riescono a ‘colorire’ con i loro strumenti una serie di improvvisazioni che risentivano fortemente della psichedelia dell’epoca, come ad esempio quella dei californiani Doors. Le tastiere di Wright ed i suoni di Barrett alla chitarra ricamavano affreschi modali ed effetti che spesso davano l’idea di ‘viaggi spaziali’ e creavano negli ascoltatori vere e proprio allucinazioni sensoriali. Soprattutto dal vivo i Pink Floyd riuscivano a creare, anche con un impianto luci notevole per quegli anni, una vera e propria magia ipnotica. “Interstellar overdrive” è la cronaca di un viaggio umano nell’universo, che porta l’ascoltatore negli angoli più remoti e bui dell’universo. Il pezzo inizia con un’introduzione di chitarra, basso e organo che eseguono un riff discendente che funge da tema del pezzo. Dopo l’ingresso della batteria e la ripetizione del riff, il pezzo vira verso l’improvvisazione modale. Il brano diventa gradualmente sempre più destrutturato, senza una ritmica precisa fino al finale che riprende il riff iniziale con oscillazione tra i canali destro e sinistro per concludersi con una coda rumoristica cacofonica. Questo brano è ricordato anche per il grande impatto live. I Pink Floyd lo suonavano ogni sera all’Ufo Club. Le versioni live erano lunghe oltre venti minuti e quasi del tutto improvvisate, mentre quella sull’album è molto più corta e sintetizzata, in modo da poter reggere ascolti ripetuti anche se nacque sovraincidendo tra loro due versioni brevi della composizione eseguite dal gruppo senza interruzioni.

“Astronomy Domine” è il resoconto di un viaggio stellare intrapreso da Barrett attraverso l’uso dell’Lsd . Il basso pulsante e continuo rappresenta la connessione radio con la terra, mentre la chitarra, insieme a un canto maestoso e solenne, sembrano vagare in un panorama cosmico oscuro e tenebroso. Il tappeto stellare tessuto dell’organo Farfisa di Wright dà solidità al tutto. Completa il pezzo l’incessante batteria di Mason, che enfatizza le parti più drammatiche. Il brano ha una sequenza di accordi molto inusuale.

“The Piper at the gates of down” fu pubblicato in Gran Bretagna nell’agosto del 1967, mentre negli Stati Uniti nel mese di ottobre. Le vendite, per essere un debutto, furono abbastanza incoraggianti. Raggiunse il 6° posto in Inghilterra, il 15° in Francia, il 46° in Olanda, il 48° in Germania, l’87° in Svizzera e il 131° negli Stati Uniti. Nel corso degli anni si è aggiudicato due dischi d’oro.

L’impatto musicale fu invece enorme. Il primo disco dei Pink Floyd è considerato come una delle pietre miliari del rock degli anni 60. Nel 1967, sia Record Mirror che NME diedero all’album un voto di quattro stelle su cinque. Record Mirror commentò: “l’immagine psichedelica del gruppo prende realmente vita con questo Lp, che è una bella occasione con cui (i Pink Floyd) mettono in mostra sia il loro talento che la loro tecnica di registrazione. L’album è pieno di suoni strabilianti”. Cash Box lo ha definito “un’impressionante raccolta di attuali imprese del rock”. Sia Paul McCartney che Joe Boyd, vecchio produttore dei Pink Floyd, hanno valutato l’album positivamente. Alcuni, tra cui risalta Pete Townshend, hanno espresso il parere dei fan dell’underground, affermando che l’album non rispecchia le esibizioni dal vivo della band.

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