Monna Lisa

Per  il mio trentesimo compleanno i colleghi d’ufficio mi regalarono due biglietti per Parigi. Io a Parigi c’ero stato già due volte,  la prima  a vent’anni  per andare a  trovare un amico in erasmus; pochi monumenti, poche foto da turista, ricordo solo una  sbronza clamorosa e un feroce mal di testa che mi perseguitò per i giorni successivi.                                                                                                                      

La seconda volta che misi piede sul suolo parigino la mia mano stringeva forte quella di Luisa: era il nostro primo viaggio insieme e Parigi era la città ideale per conciliare il suo animo romantico e la sua laurea in storia dell’arte.

Durante le nostre passeggiate Luisa mi spiegava con cura ogni monumento, ogni architettura, costringendomi a tenere spesso il naso all’insù per seguire con lo sguardo cornicioni e balaustre fregiate. In mezzo a tanta arte la presenza di Luisa mi faceva sentire meno solo e meno ignorante visto che in quell’occasione la mia laurea in giurisprudenza non mi era d’aiuto e per la gioia della mia fidanzata il momento di massimo sfoggio accademico ci sarebbe stato la mattina seguente con la visita al museo del Louvre.

Il Louvre è un posto immenso, imponente, così suggestivo che sembra essere fuori dal tempo, ma poi ti accorgi che il tempo, lì, ci si è fermato. E passando lungo i corridoi statue e quadri  si mostrano al turista con faccia altezzosa, pezzi di una storia che torna a rivivere negli occhi e nella mente di ognuno. E ad un tratto  ti tornano alla mente quegli stessi quadri impressi sui libri di scuola, retaggi di ore di storia dell’arte che da ragazzo, forse, non hai mai apprezzato. E ti stupisci, non sapevi che fossero conservati proprio al Louvre, e ti stupisci ancora per tutti quei nomi italiani che trovi in rassegna e ti incazzi pensando che i francesi, oltre a fregarti ai mondiali, ti hanno fregato anche un bel pezzo di patrimonio artistico. E tra tanta arte, più o meno conosciuta, c’è una sala che per tutti, italiani e non, è una tappa fissa:  la sala della Gioconda. 

È facile capire di essere in prossimità della sala, basta guardare la folla di turisti che si accalca agitata, riesci a sentire l’emozione e la curiosità della gente pronta ad ammirare uno dei più grandi capolavori mondiali. Ci si spinge un po’, si cerca l’angolo migliore e qualcuno azzarda strane posizioni per sperimentare in prima persona la leggenda dello sguardo di Monna Lisa. C’è chi si accascia, chi si sposta tutt’a destra, chi tutt’a sinistra per capire se quello sguardo misterioso e magnetico possa sorprenderli sempre. Ci si avvicina il più possibile, si tentano foto azzardate mentre il guardiano della sala, come un moderno Cerbero, intima ai turisti di riporre le macchinette fotografiche. Si insinua il gusto perverso di superare la transenna  e guardarla dritto in faccia, carpire il suo segreto, decifrare il suo sorriso, svelare il mistero del suo sguardo, quello che attanaglia milioni di studiosi di tutto il mondo. Quando entrai nella grande sala fui subito colpito dalla piccola dimensione del quadro in confronto alla grande parete. Era piccolo, molto più piccolo di quanto me lo aspettassi. Dietro alla grande teca di vetro compariva quel viso pacato, a tratti materno, a tratti languido come la posizione delle mani delicatamente incrociate. I colori erano scuri, il paesaggio sfumato, le sue vesti sembravano di un velluto pesante che all’altezza delle spalle si confondeva con la chioma scura. 

Era quella la donna da cui Leonardo non voleva separarsi, quella che aveva portato l’ingenuo e sprovveduto Vincenzo Peruggia alla galera nel tentativo di restituirla all’Italia. Sì, era lei. Quanti sguardi aveva incrociato quella donna, dopo più di 500 anni il suo viso ancora rilasciava lo stesso fascino, ancora i  suoi occhi scrutavano con attenzione come non fossimo noi a guardare lei ma fosse lei ad indagare sui nostri volti . E io quegli occhi me li sentivo realmente addosso come due spilli sottili e pungenti ai quali non potevo restare indifferente. Sentivo la voce di Luisa in sottofondo che mi parlava ancora delle sue lezioni universitarie a cui poi univa pagine e spiegazioni del caro e famoso Dan Brown, la storia, le leggende, il suo mistero.

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