La manifestazione

Napoli, primavera 1991.

 

Mario‘Uana indossava la faccia seria delle gravi emergenze ed un berretto verde militare stile Havana Libre che conferiva dignità al suo ruolo. Era entrato con fare deciso, subito portandosi verso Giancarlo che l’aveva ascoltato in disparte per qualche minuto. In poco tempo l’aula autogestita era stata liberata senza troppe discussioni dagli avventori occasionali ed era rimasta a disposizione dei militanti più attivi del Movimento che, ancora una volta, non avevano esitato a mettere da parte libri, scacchi e fumetti per accorrere in difesa dell’umanità.

 

Collettivo straordinario.

 

Mario aveva assistito a tutta l’operazione seduto sulla cattedra in compagnia della sua fedele sigaretta, rubandole l’ultimo tiro e buttandola via prima di prendere la parola. Una ventina di rivoluzionari avevano apprezzato il suo gesto solenne e lo ricambiavano con un silenzio mai sperimentato. Quando aveva cominciato a parlare sembrava che anche la pioggia si fosse calmata per starlo ad ascoltare.

“Compagni, stamattina ho avuto la conferma di ciò che da tempo sospettavamo. (sospiro) L’edificio nuovo di Giurisprudenza non sarà consegnato finché l’assessore Donnarumma, il suo partito e l’impresa di manutenzione non si saranno accordati sulla mazzetta da pagare. Capite? L’edificio è pronto ma non viene utilizzato perché l’impresa non ha ancora pagato la mazzetta necessaria per aggiudicarsi l’appalto.”

 

 Non era la prima volta che affiorava questo argomento, ma sicuramente mai se n’era parlato in termini così precisi. Era sempre stata considerata tacitamente – per nascondere a noi stessi la nostra debolezza – una questione al di sopra delle nostre possibilità d’azione. Quando ne avevo accennato il mese precedente, al termine di una noiosa mattinata di lezioni in un cinema affollato, tutti avevano sorvolato con falsa sufficienza con frasi tipo “Storia vecchia”, che avevano troncato ogni discussione ancora prima di iniziare. A dire il vero ero rimasto anche un po’ deluso da quella leggerezza. Credevo che invece quello fosse un problema per il quale veramente valesse la pena di spendere le nostre energie. Finalmente qualcosa di concreto che ci potesse attirare l’attenzione degli altri studenti dopo tanto parlare a vuoto di grandi sistemi economici e di Rivoluzioni Culturali.

 

Non ero l’unico a lamentarsi di dover seguire i corsi nei cinema: avevo sentito parecchi ragazzi che preferivano restare a casa a studiare piuttosto che addormentarsi sulle poltroncine dell’ultima fila ad un chilometro dal professore. Vico, che segue i corsi in un cinema a luci rosse circondato da manifesti tipo “Le Casalingue” o “Biancaneve ed i Sette Negri”, aveva analizzato la questione da un altro punto di vista “… la mattina nella sala si respira ancora quell’aria di perversione che ti mette in testa ben altri pensieri”.

Io stesso, che ho imparato a concentrarmi anche nel casino della sedicente aula-studio, ogni mattina ho difficoltà a seguire i corsi. Arrivo puntuale alle undici per la lezione di economia politica e mi ritrovo confinato nelle ultime file da un centinaio di ragazze strictly from Oxford, che sembra abbiano pernottato nel cinema dopo il film della sera prima, per potersi sedere ad una lingua di distanza dalle scarpe dell’Esimio. Sono le stesse che, appena il prof termina l’orazione, liberano un applauso da Prima al San Carlo.

Dopo qualche giorno mi sono rassegnato all’idea che quelle lezioni mi servano a ben poco, e continuo ogni tanto ad andarci solo per tappare la bocca alla mia coscienza rumorosa. Ho fraternizzato con gli altri colleghi che non fanno una tragedia della nostra distanza dalla luce del sapere, arrivando già provvisti di quotidiano e cornetto, e con loro l’altro giorno ho affittato una barca per remare al largo di Santa Lucia. Alla faccia di Keynes e Ricardo.

 

 L’uscita di Mario’Uana questa volta, invece, non è sfumata tra l’indifferenza, anzi, è stata un pugno nello stomaco per tutti: la macchina operativa si è messa subito in moto. L’indomani è scattato un volantinaggio aggressivo in ogni Facoltà ed in ogni angolo di Mezzocannone, per gridare, denunziare, giudicare e condannare ciò che sta succedendo.

Ho distribuito volantini infuocati per tre ore davanti al portone della mensa insieme a Gaetano, detto “Teo”, un ex integralista cattolico convertito ultimamente all’anarchia per una delusione d’amore, tristemente noto per essere quello che ha scritto “DIO C’E’” su tutti i ponti delle autostrade italiane fino in Svizzera (è lui, finalmente l’ho trovato!!!). Il Movimento ha alzato il tiro: decine di studenti si sono fermati sul posto a leggere quel foglietto e a chiederci spiegazioni. L’affronto costituito da quel diritto negato per una storia di tangenti stava vincendo lo storico scetticismo nei confronti del Movimento. Ad un certo punto, circondato da un mucchio di ragazzi, ho dovuto improvvisare un mezzo discorso – io che mi vergognavo anche alle recite delle Elementari – con Teo a fianco che, in preda ad un improvviso delirio mistico, ha tirato fuori dal suo zaino delle immaginette sacre e le ha distribuite insieme ai volantini.

A me è toccata la Madonna di Pompei.

 Stamattina grande manifestazione generale.

Insieme a noi marciano compatti i Disoccupati Inkazzati dietro il loro storico striscione rosso. Sono almeno un centinaio tra cui molte donne, che picchiano colpi violenti sui tamburi e scuotono campanacci. Tra di loro riconosco alcuni di quelli che erano venuti in visita diplomatica all’occupazione (sigh) del giardino di Pozzuoli.

In coda gli studenti delle scuole superiori di tutta la città e della provincia. Migliaia di ragazzi che gridano, sul viso il simbolo della pace e falce e martello, si tengono per mano in cerchio e corrono verso il centro. Urlano slogan di battaglia e sventolano bandiere del Che. Siedono per terra lasciando scorrere chi gli sta davanti per poi raggiungerli correndogli incontro alla carica.

In mezzo gli studenti universitari, con le mani in tasca e le facce serie. Mescolati gruppi vocianti che replicano le urla di un megafono ed occhi rassegnati che sfilano in silenzio.

E infine noi, i più duri, i più puri. In testa a questo serpentone velenoso che striscia per le vie di Napoli – il Movimento – con gli sguardi incazzati che sfidano i poliziotti che ci aprono la strada, a dettare il ritmo di questo corteo che sta scuotendo la città dalle viscere.

 

 Siamo davanti alla Questura, ed una tempesta di fischi piove su quelle finestre che rimangono sbarrate.

Il corteo si è fermato.

Alcuni di noi si coprono il viso ed alzano il braccio mostrando l’indice ed il pollice come una pistola. Da un gruppo più lontano parte un coro che coinvolge tutti, femmine comprese, “DONNE POLIZIOTTE, MESTIERE DI MIGNOTTE”.

La tensione che sale è scandita dagli zoccoli dei cavalli antisommossa schierati in gran parata, che picchiano a terra eccitati dal clamore. Non capisco il senso di questa sosta. Ho davanti una fila di poliziotti in assetto di guerra, con i caschi in testa, scudi di plastica, manganelli e lacrimogeni sulla cintura. Sono tutti uguali come marziani, o come marionette, e giurerei che sotto il casco non ci sia la testa di una persona, ma un solo viso senza espressione replicato cento volte.

Giancarlo si avvicina a loro con il muso coperto e gli urla in faccia delle parole che non distinguo. C’è un casino enorme. Gli altri studenti spingono da dietro per continuare a marciare. Giancarlo resta fermo un minuto ad un palmo dallo schieramento che sembra ignorarlo, mentre alcuni di noi gli stanno dietro battendo i piedi a terra. I questurini che gli stanno di fronte non accennano ad una mossa, nascosti dietro la loro armatura, compatti nelle loro file. La scintilla si spegne come su di una miccia bagnata; lo prendo per un braccio – “CHE CAZZO FAI!?” – e lo guardo dritto negli occhi. Si divincola dalla presa e ritorna in testa al serpente.

Riprendiamo a muoverci.

Un poliziotto si toglie il casco e si asciuga la fronte. Sotto quell’armatura da guerriero spunta una faccia spaurita da ragazzino coi capelli corti che non riesce a frenare le gambe che tremano.

 

 Si prosegue con i soliti cori verso Corso Umberto dove altri studenti si aggiungono al corteo. Monto su uno dei leoni di pietra sulla scalinata dell’Università Centrale per godermi il fiume di persone che inonda la strada: non ho mai visto tanta gente tutta insieme in vita mia.  In due giorni siamo riusciti a smuovere anche gli alberi, e sono tutte facce pulite. Li guardo ad uno ad uno ed è come se li conoscessi tutti. In mezzo a loro mi sento bene, vorrei abbracciarli e scambiare una parola con ognuno.

Se quei porci potessero vederci in questo momento non riuscirebbero più a mangiarsi la città con la stessa tranquillità.

Ci sediamo sulla strada compatti, ed una selva di braccia si alza come un’onda che parte da noi per attraversare tutto lo spazio. E’ una foresta che spunta dall’asfalto, nel silenzio più assoluto, creando un’atmosfera da brivido che si legge negli occhi di ognuno. Sembra che il mondo si sia fermato a guardarci col suo sguardo truce. Anche quelli che “comandare è meglio di fottere” e quelli che “è comodo fare il comunista a vent’anni” staranno provando un sussulto.

Vorrei che questo momento durasse in eterno come la voglia di lottare di queste migliaia di teste infreddolite.

Sento finalmente di appartenere a qualcosa, di non essere più solo.

 

 L’indomani guardo tutti i telegiornali per vedere le reazioni a questo vulcano in eruzione. Sulle reti pubbliche nemmeno un accenno e tantomeno su quelle private.

A tarda sera, durante il tiggì regionale, il cronista legge distrattamente una velina capitata in mezzo alle sue carte come per sbaglio – sullo sfondo una cartolina dell’Università Centrale pescata dall’archivio – “Manifestazione degli studenti ieri mattina lungo le vie del centro contro l’aumento delle tasse scolastiche.” (le tasse scolastiche?!)  “A causa del corteo si sono verificati problemi alla circolazione in tutta la zona e traffico bloccato a Corso Umberto.”

Più che un servizio di cronaca sembrava un bollettino dell’ACI.

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