Jacko e la cicogna messicana – racconto ventottesimo

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Nel 2001 tra i frequentatori di casa Jackson c’era il cantante, chitarrista e produttore cinematografico Lenny Kravitz. Newyorkese, di padre ebreo americano e madre originaria delle Bahamas – uno degli artisti pop rock di maggior successo della storia della musica, con più di 30 milioni di dischi venduti –  lui e Jacko passavano a Neverland molte ore insieme perché, oltre all’interesse per il lavoro, condividevano l’amore per i figli. Lenny nel 1988 aveva avuto dall’attrice Lisa Bonnet una bambina che si chiamava Zoe,  che portava quasi sempre con sé quando andava a trovare Michael. Padre orgoglioso , in quella piccola bellezza in fiore vedeva  una sicura promessa, creatura di cui essere fiero, perfetta testimonial del cognome.

Quel giorno Zoe giocava nel sole e lui parlava con Michael.
I tuoi bambini – diceva Lenny – sono davvero bene educati… i figli sono una soddisfazione impagabile, le donne spesso se ne vanno…
I figli sono per sempre – assentiva Jacko – una vera coperta di Linus…
Lenny rise del paragone:
Ti piaceva leggere Charlie Brown?
Mi sono sempre piaciuti i fumetti…
Prince e Paris non sentono la mancanza della madre?
Tu lo credi?
Non mi pare…   però chi può dirlo?  – ammise Lenny.
Michael si alzò, si affacciò sulla porta, ordinò una bibita fresca e tornò verso l’amico:
Ti assicuro che non la sentono, credimi, lo saprei…  anzi voglio un terzo figlio… ma questa volta la madre deve restare anonima.
Kravitz lo guardò stupito.
Ti spiego – continuò Michael dolcemente – Debbie Rowe ha accettato di fare figli per me, anzi avrebbe voluto farne di più, però…
Cosa?
Prima ha detto che non li voleva per se, poi ha cambiato idea… . Debbie esiste ed é una persona che può riaffacciarsi e scombinare un equilibrio affettivo… un equilibrio conquistato con impegno… devo proteggere il bambino da questa eventualità…
Come farai?
Ho parlato con una ginecologa… sta cercando una ragazza con i geni giusti… io donerò il seme…
Che prerogative deve avere?
Deve essere sana…
Di quale razza?
Non guardo queste cose! Deve essere sana – ribadì Michael –  avere le carte in regola per mettere al mondo una creatura felice…
La felicità è una cosa difficile, non ce l’ha data nemmeno il successo…. vorresti il successo per i tuoi figli? – chiese Lenny curioso
Voglio che  facciano quello che a loro piace… –  Michael scrollò le spalle
Zoe è molto bella, se volesse entrare nel mondo dello spettacolo l’aiuterò…
Il nostro è un mondo difficile! – si alterò il re del pop –  non c’è successo che tenga! Mi hanno accusato di tutto perché sono una star! Omosessuale, pedofilo…  più sali in alto più aumentano le possibilità che tu sia maledetto! E quando ti abitui al cielo non puoi più scendere.
Che vuoi dire? – chiese Lenny sgranando gli cocchi
Che sto male, una piccola sconfitta diventa enorme…  la Sony non si cura di “Invincibile”,  vende poco e io sono a pezzi…     per quanto io sia il re del pop l’industria musicale protegge solo i bianchi! Sono esausto, non so se vedrò crescere i miei bambini…
Ma che dici?!
Jacko lo guardò dolorosamente:
Dico sul serio, sono stanco…. la scimmia, Lenny hai capito?  
Lo so, non Bubbles, quella di cui canti… – assentì  Lenny pensando all’inferno della droga.
Michael tacque e i suoi occhi divennero cupi. Anche Kravitz scelse il silenzio per non creare ulteriore imbarazzo. C’erano cose alle quali si accennava appena perché aleggiavano di morte anche in quella villa di sogno. Improvvisamente, trasformandosi  nel  suo personaggio, Michael si alzò in piedi e schioccò le dita ritmando:

“chiudi gli occhi e conta fino a 10 /non piangere, non ti convertirò /non c’è da spaventarsi /chiudi gli occhi e vai alla deriva /Demerol, Demerol, oh Dio sta prendendo Demerol  /Demerol, Demerol, oh no ha preso il suo Demerol oooww! /Hai sentito cosa ha detto il dottore?/ E’ infognato baby…”

Michael Jackson – Morphine – 1997

***

In una bella mattina californiana, Michael Jackson seduto nello spazioso studio di San Diego,  dalle finestre grandi come vele, della dottoressa Lila Schmidt, specialista in ginecologia, endocrinologia riproduttiva e infertilità, stava guardando foto di possibili gestanti per il suo nuovo figlio. Non era la prima volta che la star si recava da quel medico, conosciuto per fama,  a cercare una madre adatta: aveva  desiderato un terzo bambino e, dopo il 2000, forte dell’esperienza con Debbie Rowe, scartando i lati negativi, aveva illimpidito il suo intento e la prassi. La dottoressa Schmidt e il re del pop avevano esaminato montagne di  profili, volti, schede di aspiranti puerpere, cercando con passione, con speranza, ma nessuna delle candidate  aveva colpito Michael Jackson.  Quel giorno, sfogliando il grosso album fotografico, senza preclusioni ne attese, il cantante  fu improvvisamente attratto da una ragazza   che gli ricordava le squaw bellissime dei film western visti da piccolo. Colpo di fulmine, raro, inaspettato e unico. Pose il dito sulla pagina:
E’ questa chi è?
Una latino americana – rispose la ginecologa – viene dal Messico ma credo abbia lontane origine peruviane…
Sembra una pellerossa…
Quasi…
E’ stupenda…
E’  molto sana, oltre che molto giovane… geneticamente perfetta…
Che lavoro fa?
–    L’ infermiera.
Voglio incontrarla per capire se può portare in grembo mio figlio – disse Jacko con voce decisa.

La giovane infermiera fu convocata allo studio qualche giorno dopo. Era minuta, non molto alta, ben fatta, un volto infantile dagli zigomi alti e dall’ ovale perfetto, lunghi capelli corvini, lisci e pesanti come Jacko aveva sognato, come gli sarebbe piaciuto dare a suo figlio. Vestiva un camice bianco, professionale,  timida,  progogliosa della chiamata di una persona importante, da cui non sapeva cosa aspettarsi. Facendola accomodare Michael gli tese la mano:
Piacere di conoscerla.
L’altra si presentò:
Helena…
Possiamo darci del tu?
Va bene – la ragazza arrossì
Da dove vieni?
Da un paese vicino Città del Messico
Ti piace vivere qui?
Abbastanza.
La dottoressa Lila Schmidt, presente nella stanza, ritenne il suo compito esaurito e si congedò lasciandoli soli. Tra i due scese un silenzio imbarazzato. Helena teneva le dita in grembo e guardava in basso.   Michael con coraggio  ruppe l’attesa mirando al sodo:
Helena vorrei chiederti alcune cose riguardo al bambino…
La ragazza non si mosse.
Perché lo fai? – domandò Jacko
Mi servono i soldi. Siamo una famiglia povera. Ho dei parenti in Messico che hanno bisogno del mio aiuto… sono venuta per questo in California…
A Michael piacque la risposta sincera, ferma e priva di qualsiasi implicazione affettiva. Osò ancora:
–    Hai mai affittato l’utero prima d’ora?
–     No mai, lo faccio solo perché sei tu…
Anche questa risposta, inattesa,  fu gradita a Jacko:
Davvero? Non solo per soldi?
Perché sei tu…
Se lo fai perché è mio, lo tratterai bene…
Ovvio.
Ma poi dovrai abbandonarlo, dovremo firmare un accordo… tu non dovrai mai comparire… il tuo nome non sarà sul certificato di nascita… potresti pentirtene? Ci hai pensato?
Un giorno farò un figlio per me, adesso no… va bene così… sarà una creatura fortunata  perché ha un padre come te…  anche se non lo vedrò più, lui sarà felice… questo è importante.
Il re del pop guardò il naso sottile della ragazza e si augurò che il futuro bambino o bambina ne avessero uno uguale. Gli piaceva la sua pelle particolarmente chiara, il suo sorriso, la dentatura regolare, la sua freschezza, l’ intelligenza. Gli piaceva fosse semplice, sazia di quello che passava il convento e priva di complicazioni come una bimba.
–    Affare fatto Helena…   dopo l’inseminazione verrò a trovarti per sapere come va… tutto il mio staff è a tua disposizione.

Michael Jackson pagò alla bella messicana ventimila dollari e mentre la gravidanza era in corso la seguì da vcino, andò a trovarla sommergendola di regali costosi. Il 21 febbraio 2002 Helena mise al mondo il terzo figlio di Michael Jackson nello Sharp Grossmont Hospital di  La Mesa, vicino San Diego, in California.  Il re del pop preferì non essere presente al parto. Tutto si svolse in segreto, tanto che persino la dottoressa Maria Castillo, l’ostetrica che si era occupata di far nascere il bambino, non sapeva che il padre fosse Michael. Un avvocato si preoccupò che il piccolo fosse subito tolto alla madre e portato a Neverland, dove  fu affidato alle braccia trepidanti di papà e di premurose tate.
Katherine, a casa del figlio, aveva aspettato con ansia il nuovo arrivato. Profondamente mamma, sentiva di  poterlo accogliere come il più bello dei doni e ammirava Michael per questo lato tipicamente femminile.
Mi assomiglia, vero?  – chiese  Jacko a sua madre
E’ bellissimo e ti somiglia molto – rispose Katherine –   hai già pensato al nome?
Prince Michael…
Ma ne hai già uno!
Sarà Prince Michael secondo…
Quando li chiami correranno insieme?
Questo per tutti è “Blanket” –   Jacko sorrise pronunciando quel soprannome che significa  “Coperta”  – sarà la mia coperta di Linus,  lo avvolgerò per proteggerlo…
Giusto – convenne Katherine –  la nostra copertina celeste…

***

Il nomignolo affettuoso di Blanket, “Coperta”, insolito, caldo e significativo , fu però salutato dalla stampa quale ennesima stranezza,  come ormai qualsiasi cosa Michael Jackson facesse. In fondo è assolutamente normale per milioni di persone affibbiare ai propri figli, fratelli, amici, da piccoli, i soprannomi più buffi: ciascuno, facendo mente locale, può rammentarne tanti.   Ma il fantasma di “Wacko Jacko”, Jacko lo strambo, resisteva nell’immaginario  collettivo, spinto in alto dal segreto sulla sua sessualità.

Il 19 novembre del 2002 Michael Jackson si trovava a Berlino per ricevere il Bambi Award alla carriera, nella suite dell’hotel Adlon. Aveva portato con se la nurse e i  tre figli, dai quali soffriva a separarsi. Erano loro a dargli quel tanto di felicità che lo faceva  andare avanti, pur dilaniato dalla dipendenza dagli antidolorifici. Quel giorno i fan in strada lo acclamavano, sotto la sua finestra si erano radunati tanti fotoreporter dai cinque continenti. Con lui era il piccolo Blanket. Sentendo la folla invocare il nome del bambino, in un impeto di orgoglio, il cantante mostrò al mondo, alle telecamere che lo riprendevano, quel figlio adorato. Blanket col viso coperto, tenuto dal padre solo per un braccio,   penzolò fuori dalla finestra a dieci metri da terra. Questione di secondi, Michael di certo non voleva buttarlo giù, ma lo sgomento e la condanna fu unanime. Le immagini del re del pop con  il figlio penzolante e in pericolo fecero il giro del globo. L’ “Independent on Sunday” scrisse: “Gli ultimi dieci anni della vita di Michael Jackson non sono stati certo il momento migliore della sua carriera, ma gli eventi degli ultimi sei mesi l’hanno portato a rotolare giù dalla china con una rapidità senza precedenti. Se Jackson è mai stato il re del pop, è chiaro ormai che la sua corona è finita in mille pezzi”.

Tornato a casa Michael Jackson spiegava l’episodio alla tata rwandese che sembrava  non essersi mai data pace per il discredito.
Grace mi sono fatto prendere dall’entusiasmo del momento, non so come sia potuto accadere… di certo sono stato frainteso!
Lo so Michael, hai fatto una pessima impressione… queste cose ti distruggono…
Io non farei mai del male  ai miei figli!
Lo so  –  disse Grace – ma gli altri non lo sanno…

Grace Rwaramba, la donna che i figli di Michael chiamavano “mum”, era a quel tempo guida, confidente del re del pop, amica silenziosa, complice. La tata si curava anche di lui, come il quarto bambino,  gli metteva pezze fredde sulla fronte quando stava male, lo cullava. Michael a volte piangeva:
Sono spacciato Grace… ho paura di morire…
Perché dopo le disintossicazioni ricominci?
Non ce la faccio,  sto troppo male… morirò presto…
Devi vivere per i tuoi figli…

Molte canzoni di Jacko, con parole dedicate ad una donna, narravano questa disperazione, in realtà celando ben altra schiavitù: il sangue del quale raccontavano era quello del cantante stesso.

Blood on the dance floor – 1997 – testo italiano

***

Eppure erano ancora giorni belli per il re del pop. I momenti più felici con i suoi tre bambini che gli crescevano attorno affettuosi.  Blanket sembrava essere il più emotivo e sensibile,  in qualche modo somigliava al padre, era come lui facile agli entusiasmi e alle lacrime. Come era accaduto a Michael Jackson, Blanket calamitava le attenzioni altrui perché più piccolo e grazioso. Ma Jacko stava attento a non far distinzione tra i figli,   li amava tutti allo stesso modo e cercava di intuire quale, di ciascuno, fosse l’inclinazione più creativa.

Blanket canta ABC

(continua)

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