Michael Jackson nel Regno dei Due Mari – racconto trentacinquesimo

Prince, Paris, Blanket! – sprofondato in un puff dai colori sgargianti Michael chiamò a raccolta i suoi figli che, trotterellando,   gli andarono incontro. Il più piccolo, poco più di tre anni, inciampò nei  pantaloni e cadde, si rialzò,  raggiunse suo padre osservandolo serio.

Devo dirvi una cosa importante – Jacko sorrise –  da qui ce ne andiamo…
Nessuno fiatò.
Allora? – Michael li fissò interrogativo
Dove? – il maggiore aveva un’aria scettica.
Alla reggia di Abdullah Bin Hamad Bin Isa Al-Khalifa, re del Bahrain… – rispose Daddy.
Silenzio attonito e preoccupato.
Il Bahrain è meraviglioso….  –  incalzò Michael –   ci costruiremo un’altra Neverland…
A me piace Los Angeles… – azzardò Paris  
Perché vuoi andare via?  –   lo guardò contrariato Prince
Mam viene con noi? –  Blanket alludeva a Grace Rwaramba.
Vedremo…   siete tristi?
Ai figli lasciare la casa non pareva buona idea, Michael invece non vedeva l’ora di cambiare aria. Finita la tortura del processo, progettava di non tornare più in California, di dare una svolta alla sua vita. Suo fratello Jermaine, amico di Hamad Al Khalifa,  viveva da molto tempo nel Bahrain e gli  aveva magnificato ville con vista sul mare,  isole incontaminate, ormeggi con imbarcazioni di lusso, campi da golf,  scuole private per i bambini. Da mesi il re del pop non riusciva a mangiare e dormire, sperava che la lontananza lo aiutasse a dimenticare e a uscire dalla depressione. Per la prima volta si era rivolto a uno psicanalista, una delle rare persone con cui era riuscito in qualche modo a parlare: ma non era abituato ad aprirsi, si era vergognato e non aveva disseppellito la sua misteriosa natura.  Da qui l’idea del Bahrain – o “Regno dei due mari” –    costituito da deserto , il meno indicato da visitarsi d’estate,  ma con il fascino del luogo ideale per chiunque volesse mettere una distanza fra se e i propri problemi. Il “Regno dei due mari” rappresentava  una fuga e una speranza:  il re del Bahrain voleva che il cantante componesse canzoni e   avrebbe provveduto alle spese dell’intera famiglia Jackson, augurandosi un sodalizio fruttuoso. Benedizione per le tasche  della pop star,   gravate da un prestito di 270 milioni di dollari, tanto che i suoi amministratori si stavano adoperando per  vendere parte del favoloso catalogo musicale  Sony ATV.

Michael  Jackson aveva compiuto quarantasette anni. Dopo il verdetto era scomparso alla vista del pubblico e dei fan. La sua depressione, malgrado l’assoluzione, non sembrava lenirsi,   il processo aveva intensificato gli attacchi di panico e reso indomabile l’insonnia. Dopo il verdetto non ci furono conferenze stampa, ne festeggiamenti, ci fu il Bahrain,  arcipelago del Golfo Persico costituito da trenta isolette, cui capitale è Manama. Le sue acque territoriali confinano con l’Arabia Saudita e con il Qatar. Governato da una monarchia ereditaria,  è popolato da arabi musulmani. Lì nella sua capitale, Michael Jackson,  frastornato,  venne ospitato nel sontuoso palazzo del re e faticò ad ambientarsi tra marmi, mura candide, palme,  mosaici,   alti zampilli  sotto il sole. Jacko girava con uno stuolo di guardie del corpo,  il sultano era prodigo,  la servitù sottomessa, benché la lingua ufficiale fosse l’arabo,   ai suoi bambini, più velati degli islamici per ragioni di privacy, tutti parlavano inglese. La corte restava comunque una gabbia dorata: Michael provava nostalgia per odori,  sapori, suoni della California. Il danaro fugava il rimpianto,  annegava abitudini perdute,  momenti dolorosi si addolcivano nel ricordo. Un pomeriggio a Manama,  nel negozio “Toys ‘R’ Us”, il re del pop comprò per noia duemila dollari di giocattoli ai figli. La sera stessa giacevamo in un angolo completamente dimenticati perché, per lui e per i bambini, il piacere si esauriva  in un lampo  e finiva con lo shopping.

Ad agosto del 2005 l’America era stata sconvolta dall’uragano Katrina, uno tra i più distruttivi che si ricordino.  Jacko, nei lussuosi appartamenti del re, nella sua routinaria vita piena di tesori inservibili, ispirandosi alla propria personale infelicità,   iniziò a scrivere una canzone di beneficenza per la devastata New Orleans e le sue vittime. Titolava “I have a dream”.  Lo sceicco dei due Mari, vedendolo finalmente impegnato in qualcosa, sperando in un ritorno economico dopo l’investimento fatto,  si affrettò a dichiarare quanto la canzone fosse bella, composta in sole due settimane,  come godesse della collaborazione di Snoop Dogg, Kelly, Ciara, Keyisha Cole, James Ingram, Jermaine Jackson, Shanice, Shirley Caesar e The O’Jays.  Ma i tempi della pubblicazione si allungavano e Abdullah Bin Hamad Bin Isa Al-Khalifa, irritato,  sorvegliava l’artista con impazienza. Michael non aveva ripreso a mangiare e dormire, non aveva perduto il vizio:  le droghe gli toglievano energia e il suo lavoro era il primo a risentirne.

I giorni nel Regno dei due Mari furono tediosi per la star,  con aria persa  si aggirava per saloni e giardini. Le risate dei figli, che giungevano da un’altra ala della reggia,  unico senso alla sua vita regale. Un mattino, non si era ancora alzato,   gli venne recapitata una lettera. Michael stropicciò gli occhi, lesse le prime righe e sobbalzò come avesse toccato un cavo elettrico: un legale lo informava che i rappresentanti dello State Labor Commissioner avevano ordinato la chiusura di Neverland e chiedevano una  somma per risarcire gli ex dipendenti.   Trenta persone lo citavano in tribunale  per stipendi mai pagati.  Scappò per i corridoi in pigiama, attraversò labirinti di sale cercando, in preda a una forte agitazione, il sultano Al Khalifa.  Trovatolo in udienza tra consiglieri e perdigiorno gli annunciò:
Devo prendere il primo aereo per Los Angeles!
Cosa è successo? – chiese il re
Stanno smantellando il ranch, gli animali verranno affidati ad addetti pubblici…
Vai a  salvare la tua casa?
Il cantante assentì,  un singhiozzo gli morì in gola.

***

Tornato in California  Michael Jackson si trasferì per qualche tempo a Encino presso i genitori. Sua madre fu contenta di averlo intorno con i nipotini, tornò a sperare,  pur preoccupata per il suo pallore malsano,   la sua magrezza,    che presagiva ineluttabile  rovina.
–   Sembri un cadavere –    disse Katherine offrendogli una fetta di torta.
–   Non mi va…
–   Non mangi niente?
Jacko voltò la faccia.
Hai venduto i tuoi animali a una cifra irrisoria… – mormorò lei.
Non potevo fare altro, sto perdendo tutto in  cause…  Debbie Rowe vuole soldi… non gli ho più pagato gli alimenti dopo la diatriba per l’affidamento…
Finiremo sul lastrico…
Non essere catastrofica!
Ti corrono dietro tutti…. collaboratori, avvocati, bancari… ma non sono fan, vogliono milioni di dollari.

In una di quelle sere in cui si sentiva vulnerabile come un bambino approdato dallo spazio  ad altra epoca, mentre pensava di affidarsi al medico perché gli desse il sonno o la morte,  sua madre gli tese il cellulare:
Dal Barhain… lo sceicco!
Lui esitò  sbuffando seccato, ma quando parlò la sua voce era flautata:
Carissimo,  ti ascolto…
Michael quando torni a  Manama? – chiese Al Khalifa
La questione di Neverland è sempre in corso…
Stai scrivendo qualcosa?
Lavoro sempre… – mentì Jacko
In inverno da noi c’è il sole, ti aspettiamo.
A novembre vado a Londra per i World Music Awards… ho preso il Diamone per aver venduto più di 100 milioni di copie… Thriller con 104 milioni è nel Guinnes dei primati…
Il prossimo anno lavorerai per me?
Non ti preoccupare –  Michael chiuse e  sospirò.

Da molto tempo ormai i fan non avevano il piacere di ascoltare Michael Jackson in un inedito. Tornare al lavoro avrebbe rinvigorito le sue finanze e il suo cuore ma  nelle vene dell’artista il ritmo scorreva lento. Aveva solo voglia di riposare e non ci riusciva. Spesso si chiedeva se i vecchi di ottant’anni si sentissero stanchi come lui. Un giorno, finalmente,  all’inizio del 2007, accettò di cantare nel motivo “No friend of mine”:  il   primo singolo nel quale Pras, ex componente dei Fugees, debuttava da solista.  Per entrambi fu un  raggio di sole a gennaio, un azzardo pieno di promesse,  tanto più che Michael era atteso anche in  Irlanda per  la stesura di un nuovo album.  La vigilia della partenza sua madre sedette ai piedi del letto e lo baciò in fronte:
Ho pregato per te…
Lui la fissò stupito.
Ho pregato che Dio ti protegga – spiegò lei –  ti liberi dal veleno… un miracolo può succedere…
Michael distolse gli occhi  a disagio, poi di colpo domandò:
Mamma ti piaccio in “No friend of mine?”
Direi di sì…
A me non molto, ho l’impressione di non avere più voce…
Ma cosa dici?!
Dico che sto perdendo la voce….

Michael Jackson – No friend of mine

(continua)

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