Capitolo 8. Verso Bastoggi, oltre muri ciechi

Riposto il megafono nella sacca di Noè, guardo l’orologio:

– Oh cazzo, mia moglie!

Proprio mentre la sto pensando, sento suonare il mio telefono,“una mattina mi son svegliato…”

– Ciao Magdaleine, sei a Roma?

– Sono all’aeroporto.

– Prendi un taxi e fatti portare a… – rivolgendomi a Nené – Dove abita Amadou? 

– Bastoggi.

– Bastoggi, Magdaleine.

– C’è un numero civico, qualcosa?

Chiedo ancora a Nené:

– Qualche informazione in più?

– Si faccia lasciare a Torrevecchia bassa, all’ultimo fioraio prima della Boccea.

E Magdaleine:

– Ho sentito, ci vediamo lì, ah… sono sola. I ragazzi stanno da mia madre.

Loro camminano, contenti. Io credo di poter spiccare il volo da un momento all’altro. Immagino questo soggiorno primavallino come una nuova luna di miele. Una seconda Panama, senza mare, ma con la stessa passione.

“Una mattina mi son svegliato…”

– Pronto, Magdaleine!

– Volevo dirti, beh… non ti fare illusioni!

– No, certo…

Chiudo la chiamata con un sorriso tirato, ma resto fiducioso. La conosco, vuole sembrare dura ma so che insieme ce la possiamo fare. 

Ci avviamo verso casa di Amadou e dopo pochi metri ci ritroviamo travolti da una folla di studenti all’uscita da scuola. Sono assorto tra i miei pensieri in equilibrio tra la “giusta distanza” presa da Magdaleine e l’euforia ingenua e fresca dei miei nuovi collaboratori e di questi ragazzi appena liberati dal suono della campanella.

Nené mi guarda sospettoso, non vuole che il mio entusiasmo appena acceso possa raffreddarsi:

– Nun te preoccupà! C’ho un piano . “O sfregio dell’Insugherata”.

In quel momento una ragazza appena uscita da scuola si volta verso di noi ed esclama elettrizzata:

– Nooooooooooo! Grandi! E quando?

– Alla mezzanotte della presentazione delle liste, tra tre giorni. Un giorno pe’ spaesalla, un giorno pe’ spiegaje de che stamo a tratta’ e l’artro, quanno l’avremo conquistata…

Non capisco:

– Ma di cosa state parlando?

– T’aiutamo noi, tranquillo!

La ragazza inizia a strillare:

– O sfregio dell’Insugherata! O sfregio dell’Insugherata!

E saltella, e balla, con la felpa legata in vita che le casca a terra. I suoi amici intorno iniziano ad intonare cori e al loro richiamo vedo uscire di corsa anche i clienti del tabaccaio di fronte, con le schedine del Super Enalotto ancora in mano. Mi accorgo che la ragazza ci sta indicando e che al suo richiamo anche le finestre e i balconi dei palazzi vicini si iniziano a popolare di vita. Guardano tutti nella nostra direzione e sembrano così entusiasti che il loro vociferare mi avvolge come una melodia.

Nenè mi guarda compiaciuto e un po’ divertito, sa che non ci ho capito ancora nulla ma dalla mia espressione trasognata intuisce che non saprò rifiutare questa proposta.

– Non so di cosa si tratti, ma ti dico che sì, lo faremo davvero!

Scrosciano allora gli applausi, come se avessi performato una serenata.

Un vecchietto pelato alla fermata dell’autobus si mette le mani in testa e inizia a muoverle in senso orario, come a volersi strappare l’ultimo pelo a forza di massaggi:

– Complimenti straniero!

Nené mi si avvicina all’orecchio e mi fa:

– Nel giro di trenta minuti tutti sapranno di te, vita, morte e miracoli.

Primavalle mi sta regalando emozioni che non provavo da tempo, sorprese inattese ad ogni passo che mi regalano la voglia di accettare qualsiasi sfida. Usciti da questa situazione chiedo delucidazioni e Noè mi racconta:

– E’ una storia antica. C’è una valle a Monte Mario che i cugini avevano dimenticato ma a cui noi di Primavalle eravamo tutti affezionati. Un posto sperduto, dietro i palazzi, alle spalle del ritrovo dei fasci. Ora l’hanno recintato e nessuno ha più la possibilità di accedervi. C’è un prato dove tutti si sono fatti la loro prima canna e c’è un fiumiciattolo dove andavamo a bagnarci i piedi. Ci sono i funghi e un promontorio pieno di asfodeli. Ci sono gli animali e c’è anche una zona dove mettere le tende. Gli adulti ci portavano i figli per fargli le ramanzine, e gli innamorati… Gli innamorati di Primavalle hanno costruito lì il centro del loro mondo. La regola era:  niente scopate, qui solo l’amore. C’è un cubo di cemento in mezzo al campo, è su un rialzamento del terreno. Una volta lì sopra si guardano i due mondi: Primavalle e Monte Mario. Si è di fronte al dirupo, dietro la valle, e ai lati altre discese. Basta sussurrarsi “ti amo” che se ne sentono le eco. Si dice che due persone che fanno l’amore sul cubo restino legate per sempre. Devono guardare la luna, dirsi tutto di loro. Superata la mezzanotte devono scrivere qualcosa sul cubo e, insomma, i giochi sono fatti.

– E poi?

– E poi ce l’hanno tolta.

– Ma chi? I fasci?

– No, a loro andava bene, ci prendevano per il culo, questo sì. Ma ci lasciavano stare.

– Allora chi? Gli altri abitanti del posto?

– Ma che? Quelli ci prendevano per raccoglitori di cicoria. Se l’è comprata un signorotto, spera che la rendano edificabile da un giorno all’altro. L’ha chiusa ed ogni volta che abbiamo provato a violare la sua proprietà ha chiamato la polizia. Non gliene frega niente, allo stronzo. Non si è fatto problemi a mandare dentro anche padri di famiglia, a far piangere ragazzini di tredici anni. E alla fine gliel’abbiamo lasciata vinta. Ma Nené gliele ha promesse. Lo sfregio significa proprio questo: riprendercela, e lasciare tutti di stucco. Cazzo, siamo ancora vivi, sì o no?

Mi ritrovo alla testa del gruppo, mentre varchiamo insieme le porte di Bastoggi per raggiungere il garage con il furgoncino VW.

Allora Nené tira un fischio: – Caronte! Carò!

Da un cancelletto esce un cane lupo dal pelo lungo, anziano, che mi si avvicina e mi annusa.

E Nené mi poggia una mano sulla spalla: – Statte fermo! Daje Caro’!

Il cane parte da dietro, poi mi lecca le palle, mi mordicchia le tasche, salta e mi tasta il petto con le zampe. Si abbassa, fa su e giù con la testa, non abbaia, emette un suono rauco, come un grande sospiro catarroso. 

Tutti passano dall’attenzione al sorriso: – Sei pulito! Andiamo!

Caronte attraversa la strada e noi con lui. Passiamo per un parco giochi abbandonato, verso il Bronx. Il cemento si fa sempre più cupo. Caronte attraversa i cortili. L’erba man mano che ci addentriamo scompare anche dagli angoli dei marciapiedi. I colori non esistono più. Ci sono solo il bianco e nero: il grigio, nulla di più. Inferriate, ringhiere. Dodici, tredici piani. Finestrelle che solo ad immaginare come siano state montate mettono l’asfissia nei pensieri. Ai lati delle strade pezzi di motorini. I cassonetti sono per metà bruciati e per il resto sfondati. Scoperchiati, trafitti da proiettili, ribaltati. Ci sono macchine senza ruote, altre senza parabrezza. Arriviamo su una stradina dove non è possibile passare con le macchine. Ci sono montagne di televisori, stereo e computer che limitano il passaggio.

– Benvenuto al residence!

Il primo palazzo che incontriamo ha un portone di ingresso murato.

– E’ vuoto?

– No, è pieno.

– Come entrano a casa?

– C’è una finestra aperta, guarda là.

C’è uno ragazzino rom che ci guarda e Noè mi spiega:

– Lui controlla che non arrivi gente strana, si dà il cambio con gli altri. Se sei uno del lotto ti cala la scaletta e puoi entrare. Se sei una guardia, un assistente sociale, o un ficcanaso, si fa aiutare da qualcuno e sposta un mobile per chiudere l’accesso.

Sono case popolari, alcune assegnate, altre occupate, altre rivendute e di nuovo occupate. Chi ci vive ha costruito una comunità di mutuo-aiuto. Sa che per entrare dovrà chiudersi un anno nelle sue mura, non dovrà aprire a nessuno, dovrà arrangiarsi come può, senza luce, senza gas. Sa che prenderà delle denunce, ma non ha niente da perdere e tutto da conquistare. Può finire in galera, ma può anche divenire proprietario di uno spazio. Un umile spazio che diverrà la sua casa. C’è posto per tutti, ma con una doppia selezione. Dietro i palazzoni ci sono dei campi, c’è spazio per costruire qualcosa di abusivo, ma di salvifico. Occorre stare attenti, lavorare di notte, lavorare in segreto. C’è chi pensa che a Bastoggi ci sia solo chi è stato respinto dalla società, invece per stare qui dentro bisogna saper vivere, arrangiarsi e andare avanti. Occorre essere primavallini dentro. 

Ninetto lo traduce a parole sue: 

-Pé vive qua ce vojono le palle. Devi esse preciso, devi sapé tené un cecio ‘n bocca. Devi sapé mantené la robba che scotta senza bruciatte. Devi avé l’occhi aperti, ma te devi fa i cazzi tua. Devi sapé er linguaggio della strada. I suoi codici, te devi difenne. Se c’è da sputà a terra ce se sputa, ma nun se deve mai sputà sur piatto dove se mangia. Un vicino è n’amico. Un fratello. Una guardia è ‘na spia. Qui semo violenti, ma nun se famo male. L’educazione è tutto. Nun sapemo camminà cor culo a punta, nun sapemo masticà colla bocca chiusa, ma sta sicuro che all’amicizia ce tenemo. Che semo veri, che te dimo le cose ‘n faccia e nun te nasconnemo nulla, Sapemo perdonà, sapemo chiede scusa. Semo esseri umani e ce conoscemo pelle nostre bruttezze, pelle nostre debolezze. Semo forti pe’ questo, a differenza d’artri. A Bastoggi nun se entra facile, questo è ‘n posto chiuso. Dicono che semo come Scampia, ma se sbajano, qua i ragazzini nun devono da lavorà, devono giocà. Sò creature, se devono divertì. Noi nun semo delinquenti, nun rubbamo mai e se lo famo, lo famo solo quanno stamo colle pezze ar culo. E lo famo co’ gentilezza. Lo famo ai ricchi e no ai poveracci. Quarcuno spaccia, ma no la merda da fighetti. Qua gira solo er puzzone, a prezzi modici, pé arrotondà. Chi va ortre c’ha ‘n problema e allora è n’artra storia. Je dovemo stà vicini.

Andiamo avanti e man mano che ci muoviamo questo mondo diventa molto più familiare. Ci sono galline libere nei giardini, ci sono i tricicli dei bambini, ci sono dei ciclamini sulle ringhiere. E nei cortili interni vedo pareti dipinte di viola, di giallo canarino, di rosso, di rosa, di blu. Dei murales che raffigurano degli indiani in lotta con dei cowboy obesi ed infine una tavolata allestita in mezzo all’asfalto di questa lunga e larga strada chiusa. Una tavolata fatta di una decina di tavoli diversi, tutti accostati. Poi blocchetti di tufo e tante palanche per creare dei posti a sedere. E poi ci sono le sedie. Sedie spaiate, rimediate. In vimini, di plastica, di ferro, verdi, bianche, di legno, arancioni e nere.

– Qui abita Amadou!

Scende il nostro amico del Mali, ha in braccio le sue due bellissime figlie. Hanno le treccine, il sorriso spensierato. C’è anche sua moglie, una donna incantevole di un nero intenso. E’ incinta, ha un vestito rosso, stretto, lo porta con disinvoltura, nonostante il pancione. Dietro di loro altre quattro famiglie, tre italiane e una asiatica. Sembrano amici da sempre, hanno in mano teglie e leccornie di ogni specie e riempiono subito l’enorme tavolata.

Dopo le presentazioni di rito, Amadou mi indica di seguirlo e mi accompagna all’interno del piazzale tra il suo edificio e quello di dietro. C’è un signore anziano, con i dread bianchi. E’ seduto su uno sgabello, tra le gambe ha un pentolone di alluminio posato su un fornelletto alimentato da un bombolone di gas. Ha in mano una stecca di legno e gira, gira continuamente.

– Buongiorno Signor Delemberte, tra trenta minuti la polenta sarà pronta!

Amadou mi pizzica la guancia:

– Sua moglie sarà felice di questo posto!

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E’ possibile visualizzare e sfogliare l’ebook provvisorio di Piccioni e Farfalle (Cap.1-8): http://issuu.com/poetadelnulla/docs/ebookprovvisorio/1

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