Capitolo 20. Madeleine, la regina delle farfalle

Madeleine si è addolcita. E’ sempre stata una creatura indomabile e pulita. Intercettarla è stato il premio della mia vita, rincorrerla il fine di ogni mio sforzo. Vederla, il mio pieno di energie. Ascoltarla, la mia audizione universale. Il suo giudizio, le picconate ai miei palazzacci. Confrontarmici, le fondamenta dei miei sogni. 

Passo dopo passo abbiamo ricostruito il nostro rapporto, lo abbiamo fatto con la poesia, con i gesti. Con le azioni. E’ inspiegabile come la rivoluzione unisca invece che dividere. Come la lotta riappacifichi gli amanti invece di indebolirli.
Costruire una rete di artisti è stato per lei naturale. Abituata a fluttuare nella melma delle grandi città, ha sviluppato uno sguardo capace di fermarsi sui dettagli. Sulle cose che più la incuriosiscono. Negli anni ha placato la mia gelosia, facendola sfogare, scoppiare, modificare.
La vedevo camminare e attaccare bottone con loschi ceffi, uomini dalla barba più lunga della mia. La vedevo entrare nei bar e offrire il caffè a signori sporchi di vernice. Il suo laboratorio è sempre stato un via vai di persone interessanti e io soffrivo, dubitavo. Mi sentivo a rischio. Credevo di poterla perdere da un momento all’altro. Poi ho capito che Madeleine è una farfalla, che è molto più intelligente di me e che coltiva sentimenti più puri. Paradossalmente, più animaleschi.
Lei è spinta dalla curiosità, dalla vita. Si muove per necessità, senza filtri perbenistici. Non teme il fraintendimento, perché non accetta i compromessi. E’ una farfalla. Non ha bisogno di tornare ad essere un baco.
Non si nasconde, sventola le sue ali. Non ha nulla da nascondere, anzi si ostenta. Ha colori magnifici e ci guarda tutti dall’alto.
E’ animalesca, ma signorile. E’ una donna.
Non mi ha mai tradito e mai lo farebbe. Il mio fallimento è il suo fallimento. La mia morte è la sua morte. Se si allontana lo fa per caricarsi di cose utili alla mia guarigione. Dispensa lezioni d’amore. Lo fa senza pudore.
Con un compagno debole come me, lei è un taglialegna che si muove nel bosco alla ricerca di qualcosa da bruciare. Per riscaldare il nostro nido d’amore.
Nel mio continuo deprimermi, lei si muove lateralmente. Con l’arte cerca di migliorare quel che appartiene anche a me. Lo fa per me.
I suoi progetti, le sue resistenze, i suoi silenzi, le sue esperienze sono necessarie. Per lei, per me e per tutte le persone che odiano profondamente tutto ciò che hanno attorno.
E’ una donna apparentemente fredda. E’ un’artista, ma non per questo è priva di lucidità. Conosce migliaia di persone, ma ha chiaro ogni volta il motivo di questi incontri. E’ sempre interessata alla scoperta di idee nuove, ma sempre in relazione al luogo, allo spazio, alla lotta che può condividere con chi le propone.
E’ qui che lei ha disarmato la mia gelosia. Io ho l’esclusività di tutta Madeleine, di tutte le sue lotte. Gli altri godono di una sua sola parte e spesso per tempo limitato. Lei mi ha insegnato che l’amore, quello vero, è un assolutismo sentimentale, astratto e materiale.
Lei ha deciso di non essere un’individualità, di vivere la vita come fosse un noi. Io e lei insieme. Nella sua testa, nel suo cuore, siamo sempre in due. Questo ha reso tutto più facile.
E’ però in continuo movimento. Cerca di cambiare il mondo. Ha bisogno di fantasia e per questo di conoscere altre persone, di lavorare con loro. Ha scelto l’arte come arnese del suo fare.
A Primavalle ha trovato pane per i suoi denti.
Lugano le stava stretta, pur se non si sarebbe fermata davanti a nulla. Quando si diventa un nome, i propri oggetti diventano sempre più contenitori di una firma. E lei, invece, vuole che le sue opere siano delle bombe. Degli ordigni di cambiamento. Che tocchino tutti, sconvolgendoli, che entrino nella loro storia personale, ravvivandola. Non ha paura di far soffrire lo spettatore, per lei l’importante è coinvolgerlo nell’esplosione. Poco conta che le sue performance producano riflessioni, contestazioni, lacrime o risate. Una volta lasciate per strada non le appartengono più, hanno vita propria e per questo devono mettersi in continua relazione con gli altri. Colpirli significa che questa relazione è già profonda.
Madeleine appare fredda anche per questo, lei lascia delle bombe e scappa. Lo fa da convinta pacifista. Si proclama artista e non autrice di qualcosa. Così, nel momento della costruzione del progetto è all’interno del dibattito, lo è con un’enfasi autorevole, poi corre via. Non concede spiegazioni autoritarie di quel che ha fatto, abbandona le vesti di chi ha voluto comunicare chissà cosa e cerca di farsi spettatore colpito. Di fronte a chi le chiede aiuto nel leggere ciò che ha davanti, lei non può far altro che ascoltare, non può guidare nessuno nell’arte. La farfalla vola via e, se qualcuno proprio vuole, la può seguire verso un’altra opera. Un’altra opera è però un’altra storia. Allora lei batte forte le ali e solo io scelgo sempre di seguirla. E’ giusto così. Che gli altri raccolgano i loro pezzi e si godano l’oggetto artistico lasciatogli da Madeleine con il giusto tempo, il giusto impegno. Che lo facciano non uccidendolo con sfarzose critiche intellettuali. Che non lo rendano una cosa per pochi. Una figurina in un libro di storia dell’arte, un ostaggio in un museo.
Primavalle è per Madeleine carta bianca, milioni di forme a portata di mano e librerie dense d’ispirazione. Ha tavolozze dell’essere umano a quantità, la richiesta di un paesaggio altro e l’incarnazione di un mondo in bianco e nero da ridipingere a colori.
L’Insugherata ha fatto bene a me, ma anche a lei. E vedere felice chi ti sta vicino è la prova di quello che stai sentendo dentro. E’ la risposta “anch’io” alla tua affermazione “ti amo”.
I ragazzi non solo la seguono, ma hanno dimostrato di voler liberare le loro capacità. Vogliono riscattare le loro pigrizie artistiche e mettersi al servizio dell’altro. Così muratori, elettricisti, imbianchini hanno costruito una squadra di manovali pronti a riprendersi la città.
Colorano i viali, si accordano con i writers su quali pareti lasciargli e quali reinventare. Succede allora che nelle traverse di Torrevecchia si possano incontrare pareti che ritraggono dei cieli, dei tramonti, degli scorci di bosco o di mare. I falegnami stanno costruendo delle cornici di modello ottocentesco per impreziosire sul muro le scritte più antiche. I vetrai hanno costruito delle teche per proteggere e omaggiare degli oggetti storici. E’ il caso del telefono per chiamare il taxi, inattivo da almeno dieci anni. Si trova a largo Millesimo, è di ferro ed è arrugginito, posato su una mensola inchiodata ad un palo di legno alto due metri. E’ stata costruita una teca per quel che resta di un mitico motorino Ciao in via Pietro Gasparri. Si dice sia stato per tutti gli anni ottanta a disposizione della collettività. Dicono che non servivano le chiavi, che bastava dare due botte al motore e pedalare.
Se alcuni grandi artisti vedevano nella materia grezza già la forma e lavoravano per farla uscire fuori, Madeleine è alla ricerca dei buchi. E trovarne, in un quartiere così popolato, sembra difficile.
E’ affiancata in questa impresa dal Conte e da una ragazza di ventiquattro anni che si chiama Anna.
Quando ha deciso di iniziare, ha chiesto ai suoi due assistenti:
– Sapete cosa è un buco?
– E’ un posto dove non c’è niente – aveva prontamente risposto il Conte.
E Madeleine aveva insistito:
– Dove prima c’era qualcosa e ora non c’è niente?
– Un buco non è detto che non abbia nulla al suo interno – aveva allora aggiunto pensierosa Anna. – Mio padre era un eroinomane. E’ morto quando ho fatto diciotto anni. L’ho trovato steso sul letto, una mattina. Overdose. Quando si faceva un buco, io me ne accorgevo. Anche da bambina. Si spegneva. Ma era lì davanti a me. Sfatto. Bianco, sudato. Volevo non ci fosse, ma c’era. Il suo buco si è proiettato su di me. Mi convincevo non fosse niente. Che sarebbe passato. Ora a volte penso che mio padre non sia esistito. Che non si sia mai drogato, che non sia morto. Ho un buco, eppure so che non ho un vero vuoto. Ma lo vivo così.
– Resta qualcosa, ma cerchiamo di non vederla – era stata la conclusione di Madeleine, – un dolore mai rimosso da cui ci teniamo lontani. O qualcosa di simile. Ma in fondo non è così facile tenersene lontani…
– Mi viene da pensare al Santa Maria della Pietà, il manicomio… – aveva poi commentato il Conte.
Il Santa Maria della Pietà è un luogo pieno di contraddizioni, se visto dall’alto ricorda un cervello. Si dice sia stato progettato così, con i padiglioni inseriti nel posto corrispondente alla parte dell’organo che determina le malattie dei loro ospiti. Fino alla Legge Basaglia, e con consistenti strascichi fino agli anni novanta, era una prigione per chi non aveva commesso grandi reati, ma aveva la colpa di non essere considerato normale dalle autorità preposte. Inizialmente era gestito dalla Chiesa, poi dalla psichiatria, con la compiacenza di Provincia, Comune e forze dell’ordine. Uomini separati dalle donne e due edifici per i bambini, alcuni di loro nati e cresciuti là dentro. Infermieri, dottori e suore hanno utilizzato la violenza dell’elettroshock, la reclusione, le fasciature forzate, dalle camicie ai giri di cinta intorno al letto. E’ stato il teatro degli orrori, ma ha anche ospitato poeti e artisti, come Mario Schifano. Oggi è un parco, dagli alberi profumati. Alcuni padiglioni sono stati assegnati al Municipio, alla Asl, all’Università, altri sono abbandonati. Hanno cementato le loro finestre, le loro porte, per paura che qualcuno vi entrasse. Dicono siano stregati.
Proprio dall’intuizione del Conte Faz, Madeleine ha individuato l’oggetto della loro opera artistica.
– Un quartiere che ha avuto un manicomio ha un buco. Su questo buco noi agiremo – ha spiegato ai suoi collaboratori. – E’ un parco aperto oppure chiuso?
– Diciamo chiuso. C’è ancora la recinzione originale e l’ingresso è sorvegliato giorno e notte, l’apertura al pubblico è solo diurna, segue gli orari degli uffici.
– Bene, se è un parco chiuso, noi creeremo un’apertura in qualche modo. L’arte dà solo il la. Al resto serve la cittadinanza. Noi lavoreremo su quei confini. Penso ad incartarli, per esempio. Ma poi la vita, in quel posto, la dovrà portare tutta Primavalle. E’ normale che debba essere luogo di sperimentazione, dove i giovani suonino con i loro gruppi, dove si possano vedere dei film all’aperto. E quei padiglioni vuoti… Devono essere riempiti di progetti! Ma attenzione, il manicomio è ovunque una storia drammatica, ma lo è soprattutto per chi lo ha vissuto. Va data loro vendetta. Rivoltando la loro storia. Quel parco può essere la casa di tutti quei geni che sono stati vigliaccamente voluti vedere come pazzi. Holderling, Nietsche, Campana, Baudelaire, Bukowsky, Leonardo, Caravaggio, Artaud, Van Gogh, Schifano, Munch e molti altri.

Il progetto Occupy Manicomio ha raccolto Madeleine e i suoi seguaci attorno ad un laboratorio di cartapesta, con cui rimodellare l’ex-Ospedale Psichiatrico. Di nascosto, ma non troppo, dall’interno hanno iniziato un lavoro che durerà a lungo: costruire varchi di vita oltre i confini, sui muretti e le ringhiere del parco. Il trio coordina il progetto a cui partecipano entusiasti bambini e adulti. Gino poi cristallizza il tutto con delle resine a base di colle mescolate, che a suo dire dovrebbero proteggere le opere da freddi e piogge del tempo a venire. E’ un gioco, ma non solo. Nel bel mezzo di quel che oggi potremmo definire una cittadella delle istituzioni, tanti ragazzi hanno occupato gli edifici vuoti. Buttando giù delle pareti e intitolando il loro angolo di parco a quei maledetti che con le loro opere ci hanno fatto capire che la pazzia non esiste. Lo hanno fatto resistendo alle cariche della polizia e lo hanno fatto allegramente. Il mio ruolo di possibile sceriffo ha limitato il disfattismo dei soliti inquisitori e ha lasciato spazio ai sogni.
Madeleine ripete a chiunque entri nel suo progetto:
– Noi saremmo finiti qui dentro. Perché facciamo ciò che è giusto, ma non fa comodo. Perché diciamo ciò che molti pensano, ma non possono dire.
Il Conte ha riciclato centinaia di giornali porno, Anna una collezione di riviste animaliste, tutte le carte nascoste di Primavalle coprono ora le mura che cingono il Santa Maria della Pietà.

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