Eremi Arte. L’arte contemporanea e la spiritualità. Intervista al curatore Silvano Manganaro

Fino al 2 ottobre è possibile visitare l’Abruzzo in un modo insolito, capace di stimolare nuove riflessioni sullo spazio naturale e sull’intimo spazio della spiritualità. 

Tre curatori, Maurizio Coccia, Enzo De Leonibus e Silvano Manganaro hanno invitato alcuni artisti a confrontarsi con i molti eremi che caratterizzano la regione.

Il progetto è nato in seno all’Accademia di Belle Arti de L’Aquila e segna un interessante momento nel panorama accademico italiano, non solo per l’impostazione delle Accademie in genere, ma per la specifica storia dell’Istituzione aquilana che, dopo l’ultimo terremoto, ha saputo farsi stimolo per gli studenti e la città stessa.

Il progetto coinvolge il territorio, proietta gli eremi in una dimensione contemporanea attraverso la ricerca degli artisti, questi ultimi chiamati al dialogo con un ambiente antico di introspezione e, tradizionalmente, di preghiera. Ma l’eremo può essere letto in molti modi, così come la spiritualità. 

Abbiamo incontrato Silvano Manganaro a cui abbiamo chiesto un racconto del lavoro condotto. Apriamo così, con l’intervista a un curatore – “l’anima seminascosta” dei progetti di arte – la nuova rubrica Speech Art. 

Non possiamo non partire con una domanda diretta, forse scontata, ma necessaria: come è nato il progetto Eremi?

Il tema della spiritualità è centrale in questo progetto. Eremi nasce da una vostra ricerca precedente sul tema nella storia dell’arte o il contrasto territoriale ha ispirato un confronto tra gli storici luoghi di isolamento e gli artisti contemporanei?

Il progetto è nato grazie a un’intuizione di Marco Brandizzi, artista e direttore dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, il quale, due anni fa, appena insediatosi, ha pensato che gli eremi abruzzesi potessero essere oggetto di interesse (storico, artistico e didattico) da parte dell’Accademia. Questi luoghi, spesso sconosciuti, difficilmente accessibili ma carichi di fascino sono, in qualche modo, la metafora dell’Abruzzo. Un modo quindi per legarsi al territorio sul quale insiste l’Accademia ma, soprattutto, per declinare in chiave contemporanea un pezzo di storia, notevolissima dal punto spirituale, naturalistico, paesaggistico e filosofico. L’idea è infatti quella di fare del progetto Eremi una sorta di dispositivo, un laboratorio sempre aperto, capace di accompagnare l’Accademia nel corso degli anni attraverso l’organizzazione di mostre, workshop, simposi, incontri, corsi, laboratori… Questi luoghi sono una miniera di stimoli e noi abbiamo intenzione di svilupparli tutti.

Quali criteri hanno guidato la scelta degli artisti? 

Chiaramente sia io che Maurizio Coccia, che Enzo De Leonibus, abbiamo pensato ad artisti che conoscevamo e stimavamo e che sarebbero stati in grado si accettare le sfide che un progetto come questo comporta. In alcuni casi ci hanno ispirato alcune opere già realizzate dagli artisti, in altri il loro approccio al lavoro, in altri ancora le affinità elettive tra gli artisti stessi e questi luoghi così carichi di spiritualità. 

Tutti hanno realizzato progetti site specific?

12.jpg

L’ottanta per cento degli interventi sono stati realizzati per l’occasione; in alcuni casi gli artisti hanno scelto di riproporre un loro vecchio lavoro (seppur con delle sostanziali modifiche) perché particolarmente adatto alle tematiche o al luogo: penso a William Basinski, Elena Mazzi o Enzo Umbaca (gli ultimi due legati al terremoto de L’Aquila, così come il lavoro di Giuseppe Stampone). Il caso di Aldo Grazzi, a Roccamorice, è un po’ diverso, vista la specificità della location. 

Quale il filo rosso che unisce i lavori? Intorno a quale specifico concetto avete lavorato? In quali termini intendete o avete inteso la “spiritualità”? 

Credo che trovare un filo rosso valido per tutti e, in un certo senso, “oggettivo” non sia possibile. Abbiamo volutamente dato massima libertà ad ogni artista. Dopotutto questo progetto non era commissionato dalla CEI o dalla curia, non aveva dunque un fine pastorale o religioso. Abbiamo piuttosto sottoposto agli artisti dei luoghi e delle suggestioni, che potevano essere storico-artistiche, naturalistiche o spirituali-emotive. Alcuni di loro sono rimasti affascinati dal paesaggio o dagli elementi naturali (penso a Federico Cavallini nell’Eremo di San Venanzio o Franco Menicagli che ha lavorato con il materiale trovato sul posto). In altri casi la spiritualità è stata declinata in chiave contemporanea, facendo leva anche sull’ironia: penso al video di Calixto Ramirez il quale, mentre si reca all’inaccessibile eremo di S. Giovanni all’Orfento, grida al mondo ed al paesaggio il suo numero di cellulare o Marco Bernardi che affianca alle iscrizioni votive le sigle in cemento degli indici di Borsa). Alcuni, come ho già detto, hanno lavorato sulla storia recente e sul trauma del terremoto; altri sono intervenuti negli eremi lasciando oggetti con una funzione quasi devozionale: Federico Fusi, Matteo Fato, Chiara Camoni e Luca Bertolo, Elena Bellantoni, Emanuela Barbi. Valore più ambientale e istallativo i lavori di Calignano, Mauplot, Bertuzzi, Bishop, Polidoro e Marzuoli. Alterazioni Video e Maria Chiara Calvani, invece, hanno lavorato (in modo molto diverso) dimorando per alcuni giorni e alcune notti nei pressi dell’eremo.

Sicuramente, visto il numero degli eremi e degli artisti, non è stato un lavoro semplice. Come lo avete sviluppato? 

La logistica è stata senza dubbio uno degli aspetti più complessi. Immaginate una mostra collettiva non in una sede museale suddivisa in diverse sale ma una mostra su un territorio che comprende tre province (L’Aquila, Pescara e Chieti), sedici comuni e venti location diverse. Confesso che nell’ultima settimana prima della mostra ho percorso in auto circa 350 km al giorno. Di grande aiuto è stato il lavoro degli studenti che, in molti casi, hanno affiancato gli artisti.

La fase iniziale, fatta di sopralluoghi e contatti con le amministrazioni locali, è stata svolta in larga parte dall’infaticabile Enzo De Leonibus ed ha richiesto, chiaramente, diversi mesi. Il fatto di essere tre curatori ci ha permesso di “dividerci” gli artisti: fare venti sopralluoghi, seguire l’ideazione di venti opere e seguire venti allestimenti sarebbe stato impossibile; divedersi il lavoro diventa indispensabile. Devo confessare che lavorare con Maurizio ed Enzo è stata un’esperienza unica; nonostante le nostre differenze e le specificità (o forse proprio per questo) ci siamo integrati perfettamente. Devo comunque ringraziare sempre Carlo Nannicola per tutto il lavoro grafico e informatico e, naturalmente, tutti gli studenti: divisi in piccoli gruppi hanno seguito il lavoro dei diversi artisti, aiutandoli nella realizzazione e documentando il lavoro con foto e video.

Il lavoro è stato condotto in collaborazione con i comuni di pertinenza degli eremi?

Siamo partiti da lì. Poi i contatti con i parroci e, soprattutto, con le molte associazioni e cooperative che si sono prese in carico la gestione di alcuni eremi. Su tutti, tra le istituzioni che hanno creduto maggiormente nel progetto, c’è stato il Parco Nazionale della Majella, nella persona del presidente Franco Iezzi. 

Quello che mi ha colpito, in molti casi, è stato l’entusiasmo delle amministrazioni. In comuni molto piccoli il rapporto con i sindaci è diretto e amichevole. La stessa cosa è avvenuta con tutto quello che ruota attorno a questi luoghi… potremmo raccontare una serie di aneddoti, anche abbastanza buffi. Portare l’arte contemporanea in contesti “altri” molto spesso è una vera e propria avventura. 

Trovo assai interessante che un progetto come questo nasca in seno a una Accademia di Belle Arti, istituzione che purtroppo in Italia vive difficoltà e spesso anche – strano a dirsi –  di arretratezze culturali. L’Accademia de L’Aquila, invece, dopo il tragico terremoto ha subito messo in campo le sue forze e oltre le attività didattiche sembra molto attenta a sviluppare progetti altri. Ci vuoi parlare di questa realtà?

Con la direzione di Marco Brandizzi va detto che l’Accademia ha decisamente cambiato registro. Ha raddrizzato alcune storture precedenti e si è aperta al territorio, puntando però all’internazionalità. L’Aquila, a sette anni dal devastante terremoto è una città ferita che però, allo stesso tempo, ha la voglia e l’energia per ripartire. Si respira un’aria stimolante perché, paradossalmente, è una città dove ora tutto è possibile. Ci vuole solo fantasia ed intelligenza, ed è quello che l’Accademia può offrire. Dopotutto questa istituzione, benché piccola, ha visto transitare personalità di rilievo come Fabio Mauri, Carmelo Bene, Achille Bonito Oliva, Mario Ceroli, Gino Marotta, Alberto Arbasino, Sylvano Bussotti, ecc. Ma la tradizione continua ancora oggi, basta dare un’occhiata al corpo docenti attuale e a tutte le attività collaterali organizzate dall’Accademia.

Tra le altre cose (ma questa è una mia idea personale!) credo che L’Aquila abbia, per il futuro, una grande carta da giocare: la disponibilità di immobili. Man mano che si ricostruisce si liberano gli alloggi pensati per gli sfollati. Sarebbe bello – economicamente e culturalmente vantaggioso – convertirli in quartieri per gli studenti e, perché no, pensare a delle residenze internazionali o trasformarli in atelier. Se l’amministrazione pubblica sarà in grado di recepire un messaggio come questo allora questa città diventerà uno dei luoghi più interessanti d’Italia. L’Accademia, da parte sua, ce la sta mettendo tutta. Vedremo.  

Silvano Manganaro (Roma 1979)insegna Storia dell’Arte ed Economia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti de L’Aquila. PhD presso l’Università “Sapienza” di Roma è stato redattore di “DROMEmagazine” e, attualmente, è regular contributor de “Il Giornale dell’Arte”. Segretario Generale della Fondazione VOLUME! ha curato mostre e rassegne di videoarte in gallerie e spazi “non convenzionali”, collaborando con istituzioni pubbliche e private.

Condividi sui social

Articoli correlati