Derivati: una bomba da 6mila miliardi

Da Lehman Brothers all’attuale crisi, gli strumenti per privatizzare i guadagni e socializzare le perdite. Per la Consob «una bolla che mette a rischio l’economia mondiale»: cosa sono e come funzionano

TRIESTE – Dopo la nazionalizzazione ad opera del Governo austriaco di Hypo Alpe-Adria Bank, avvenuta per ripianare le perdite di 1,7 miliardi di euro causate da operazioni finanziarie su derivati ed evitare il fallimento di una banca ritenuta “di sistema”, risultano particolarmente inquietanti le parole pronunciate a gennaio di quest’anno da Giuseppe Vegas, presidente della Consob, ad un convegno al Vicariato, a parer del quale quella dei derivati «è una bolla che mette a rischio l’economia mondiale».

Secondo il numero uno della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa «i derivati hanno prodotto un debito potenzialmente immenso, pari a dieci volte il PIL mondiale e di entità tale che nessuno sarebbe più in grado di pagare anche a causa di pratiche che sono diventate azzardo morale» ha affermato, concludendo poi con una critica esplicita agli operatori: «il profitto a breve termine non può essere l’unico obiettivo». 

A distanza di sei anni dall’esplosione della crisi dei mutui subprime e del crack Lehman Brothers questi prodotti del capitalismo deviato agitano ancora il sonno di banchieri, operatori ed istituzioni, ivi comprese quelle giudiziarie: vediamo dunque di capire meglio cosa sono ed a che cosa servono.

In Finanza si definisce strumento derivato ogni contratto o titolo il cui prezzo sia basato sul valore di mercato di uno o più beni, detti “attività sottostanti”, della più svariata natura: azioni, obbligazioni, indici finanziari, commodities come il petrolio, persino altri derivati, sino ad arrivare a variabili improbabili e stravaganti quali la quantità di neve caduta in una data zona oppure le precipitazioni in genere.

Nati principalmente come copertura di un rischio finanziario (hedging) e per gli arbitraggi (acquisti di un prodotto in un mercato e sua vendita in un altro), ben presto i derivati hanno evidenziato delle peculiarità che li rendono ottimi strumenti speculativi. Sfruttando quello che in Finanza viene definito “effetto leva”, cioè l’effetto moltiplicatore del capitale investito che si ottiene se un’operazione di un certo ammontare viene effettuata ricorrendo all’indebitamento per buona parte di quello stesso ammontare (il cui successo produrrà un elevato guadagno, ma il cui esito negativo si tradurrà in ingenti perdite), questi strumenti sono divenuti oggetto di contrattazione in molti mercati finanziari, soprattutto al di fuori dei centri borsistici ufficiali, detti OTC (over the counter), solitamente non regolamentati.

Nel caso dei derivati l’effetto leva si esplica con l’assunzione di impegni o diritti ad acquistare o vendere versando importi che ammontano a percentuali molto contenute del valore del sottostante, assumendo quindi a pieno titolo la qualifica di strumenti finanziari di rischio, come testimoniato dalle ingenti perdite accusate dalle multinazionali Metallgesellschaft nel 1993, Procter & Gamble nel 1994 e dal fallimento della Bärings Bank nel 1995, tanto da venir spesso concettualmente equiparati alle scommesse piuttosto che agli investimenti.

A dicembre 2010 il valore complessivo delle attività sottostanti i derivati ammontava a circa 670.000 miliardi di dollari, dei quali ben 601.048 rappresentati da derivati OTC (si consideri, a titolo esemplificativo, che il PIL mondiale ammonta a circa 70.000 miliardi di dollari), mentre secondo i più recenti dati dell’OCC (agenzia federale americana che vigila sugli istituti a stelle e strisce) nel terzo trimestre 2012 il solo totale dei contratti stipulati dalle 25 principali società americane si è attestato a quota 227.000 miliardi di dollari, una cifra 15 volte superiore al debito pubblico Usa; in Europa le 20 principali banche possiedono derivati per circa 6.000 miliardi di euro.

La questione fondamentale è che da strumento di copertura per la stabilità dei bilanci, da un certo momento in poi il derivato si è trasformato in un sofisticato strumento speculativo che consente grandi profitti in condizioni di mercato favorevole, ma devastanti perdite in caso contrario: da qui le insistenti quanto inascoltate invocazioni per una severa regolamentazione di questo settore.

Attraverso simili speculazioni la globalizzazione ha creato un vero e proprio mercato al di fuori dell’economia reale, alimentato dalla fallace convinzione che la ricchezza possa costruirsi sul debito mediante l’utilizzo di appositi strumenti al di fuori di qualsiasi disciplina, lasciando all’intervento dello Stato ed al denaro dei contribuenti il compito di riparare ai danni di una finanza globale che in tal modo privatizza i profitti e socializza le perdite.

Non sfuggano l’urgenza e la vastità del problema che grava sugli istituti di credito possessori di derivati OTC con valore negativo: il primo rischio è che gli organismi patrimonialmente meno attrezzati possano essere costretti a chiudere le proprie posizioni in perdita in un momento di crisi, il secondo è che questa condizione sia contemporaneamente vissuta da una pluralità banche, causando un effetto domino.

Pericoli dei quali sembra essere ben conscio Mario Draghi, presidente della BCE (Banca Centrale Europea) che, sulla scia delle riforme già avviate negli Stati Uniti con la “Volcker rule” così come in alcuni Paesi UE, intervenendo ieri all’Europarlamento di Bruxelles si è detto «favorevole alla separazione delle attività nelle banche» finalizzata ad evitare che gli investimenti speculativi siano attuati con i fondi dei depositanti, mettendoli a rischio.

Sono passati più di dieci anni da quando Warren Buffet dichiarò: «I derivati sono armi finanziarie di distruzione di massa, portatrici di pericoli che, seppur latenti al momento, sono potenzialmente letali». La voce di colui che grida nel deserto. 

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