Mercati volatili in attesa della BCE, Italia schiava del debito

TRIESTE  – Il mese di maggio si è concluso con il FTSE Mib, il principale indice di Borsa Italiana, in flessione dello 0,71% a seguito sia di  dati economici peggiori delle attese che dello stacco dei dividendi delle principali società del paniere, con l’ultima ottava sintonizzata sull’onda lunga dei risultati delle elezioni europee: nonostante alcune eclatanti affermazioni degli Euroscettici, il 70% del Parlamento UE è formato da forze europeiste, la cui prossima Commissione dovrà guidare il Vecchio Continente fuori dalle paludi delle recessione e verso un percorso di crescita più sostenuto.

Da molte parti arrivano richieste di meno austerity e più investimenti in antitesi alla tesi, peraltro tutta tedesca, che nonostante i sobbalzi degli spread di questi giorni la crisi dell’euro sia finita, grazie alla gestione imposta da Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze Schaüble: austerità, taglio dei deficit, niente euro Bond. Invece secondo Sebastien Dullien, professore all’università di Berlino, fra il 2010 ed il 2013 la strada intrapresa dall’economia europea si è trasformata in una perdita del 10 per cento del PIL (950 miliardi di euro, in pratica 3 mila euro a testa per ogni abitante dell’Eurozona) rispetto ai risultati di un’ipotetica adozione della ricetta americana, a base di ingredienti completamente diversi: al di là dell’Atlantico una prepotente discesa in campo della Fed ha fatto passare il disavanzo pubblico in secondo piano, mentre al di qua dell’oceano l’estrema focalizzazione sul deficit ha relegato la BCE (Banca Centrale Europea) a centellinare la moneta.

Così negli Stati Uniti il debito pubblico ha potuto subire un’impennata che lo ha portato a livelli prossimi al record della seconda guerra mondiale senza produrre particolari preoccupazioni, con il tempo a dimostrare non soltanto che questa era (ed è) la strada giusta, ma anche perché: negli USA il rapporto Debito/PIL ha cominciato a scendere perché la crescita non è stata soffocata da una “stupida austerità” o, per dirla in altre parole, il rapporto si è ridotto grazie ad interventi che hanno favorito l’aumento del PIL (incremento del denominatore) e non per l’applicazione di tagli al bilancio (decremento del numeratore). L’esatto contrario di quanto fatto in Europa, dove l’imperante l’ossessione (tedesca ?!) del pareggio di bilancio e della riduzione del debito non soltanto ha prodotto un’impennata della disoccupazione, ma anche del rapporto Debito/PIL: negli anni della recessione il debito medio dell’Eurozona è passato dal 65% al 95% del PIL, con quest’ultimo non solo a non crescere, ma addirittura a ridursi di un ulteriore tre per cento rispetto all’inizio della crisi.

La modesta ripresa della crescita europea si accompagna poi ad un’inflazione testardamente ancorata a livelli bassi, tali da preoccupare la BCE: la conseguenza naturale è un calo della domanda, che danneggia l’economia e fa scendere ulteriormente i prezzi; senza contare che Paesi con un debito eccessivo come l’Italia (pubblico) e la Spagna (privato), con un’inflazione bassa e redditi fermi fanno maggior fatica a rientrare con i creditori. Apparentemente il Belpaese oggi paga sui BTP la metà degli interessi di due anni fa mentre in termini reali, con i rendimenti in crescita e l’inflazione prossima allo zero, il costo del debito diventerebbe ogni giorno più pesante. Basti considerare che nel maggio 2011, con i rendimenti al 4,75 per cento ed un’inflazione al 2,64%, il costo reale del debito corrispondeva al 2,11 per cento, per schizzare al 3,8% il successivo novembre, nella grande crisi costata le dimissioni del governo Berlusconi; altro picco e grande paura quasi due anni dopo, a novembre 2013, ritornati al 3,44%: rendimenti nominali più o meno uguali, con l’inflazione, ulteriormente dimezzatasi, a fare la differenza, in uno scenario dominato dal rischio di un rialzo dei rendimenti senza che la ripresa dell’inflazione li possa contenere.

In questo travagliato e delicato contesto ha costituito un punto focale l’appuntamento a Sintra (Portogallo) del forum “Monetary policy in a changing financial landscape”, a cui hanno preso parte il presidente della BCE Mario Draghi, il suo vice Vitor Constancio ed il presidente uscente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso: un simposio di banchieri centrali ed economisti in chiave UE, ai quali si è poi unita anche Christine Lagarde, numero uno del FMI (Fondo Monetario internazionale).

«Ci stiamo incontrando sullo sfondo di una situazione economica complessa» ha esordito Draghi aprendo i lavori, con l’Eurozona che registra «una ripresa in lento consolidamento ma accompagnata da un calo graduale dei tassi di inflazione. Andamenti ciclici – ha proseguito – stanno interagendo con trend strutturali, in particolare con il processo di deleveraging del sistema bancario». Secondo il numero uno dell’Eurotower «c’è il rischio che le aspettative di disinflazione diventino radicate. Questo potrebbe spingere famiglie e imprese a rinviare la spesa in un classico ciclo deflazionistico».

Un discorso che fa chiaramente trasparire come la BCE sia finalmente pronta ad addentrarsi in terreni sconosciuti pur di rilanciare l’economia e contrastare la bassa inflazione con l’effetto collaterale, voluto dai banchieri centrali, di svalutare la moneta unica per far ripartire il credito e dare una scossa alla crescita: quasi scontati il taglio del tasso base e l’adozione di tassi negativi sui depositi delle banche presso la BCE, con sullo sfondo una nuova iniezione di liquidità per gli istituti di credito, questa volta condizionata al riavvio dei finanziamenti per famiglie ed imprese (“Credit Easing”), nonché l’acquisto di una serie di prodotti bancari (ABS, Asset Backed Security,le cartolarizzazioni delle banche distrutte dalla crisi) per ridare fiato al settore; qualora poi questi accorgimenti non bastassero e l’economia europea scivolasse verso la deflazione ed il terzo picco della crisi, la BCE non esiterebbe a ricorrere al “Quantitative Easing”, l’acquisto massiccio di titoli di Stato e di aziende private, per far uscire una volta per tutte l’Eurozona dalle sabbie mobili.

I dati Eurostat comunicati oggi hanno evidenziato che nel primo trimestre del 2014 il PIL in Europa (dato finale) è aumentato dello 0,2% su base trimestrale e dello 0,9% su base annuale, con l’indice PMI dei servizi salito a maggio a 53,2 punti dai 53,1 punti del mese precedente; nello stesso periodo frena l’inflazione, con un incremento dei prezzi al consumo (stima flash) inferiore alla stima degli analisti, mentre il tasso di disoccupazione nell’Eurozona si è ridotto all’11,7% dall’11,8% del mese precedente: tutti indicatori che parlano di un’economia europea in fase di espansione, caricando di ancora maggiori aspettative la riunione del board della BCE in programma per domani.

Nel frattempo la Spagna sembra essersi lasciata alle spalle il periodo di profonda recessione: nel suo rapporto annuale sull’economia spagnola il Fondo Monetario Internazionale (FMI) afferma che i consumi delle famiglie e gli investimenti da parte delle imprese sono tornati a crescere e che la situazione sul mercato del lavoro è migliorata, avvertendo però che il deficit è ancora elevato e che il debito pubblico è prossimo al 100% del PIL, due voci per il cui risanamento richiede maggiori sforzi.

Dopo i rialzi messi a segno nei giorni scorsi, oggi listini asiatici in ribasso a causa delle prese di profitto effettuate in attesa del report sull’occupazione a stelle e strisce (previsto in serata) e per le decisioni della Banca Centrale Europea di domani; Tokyo (+0,22%) ha terminato in leggero rialzo, mentre Shanghai ed Hong Kong hanno ceduto rispettivamente lo 0,66% e lo 0,70%.

Avvio contratto per i listini di Eurolandia, con la seduta a risentire dei dati macro relativi a Germania, Italia e Regno Unito, inferiori alle stime preliminari; ancora segno meno al giro di boa della giornata, con gli operatori a fare cassa spinti da valutazioni che, dopo le corse delle ultime settimane, sembrano eccessive; in attesa delle nuove misure espansive che la BCE dovrebbe annunciaredomani, il Vecchio Continente chiude la seduta con il segno meno: sostanzialmente invariate Francoforte (+0,07%) e Parigi (-0,06%), in modesto ribasso Madrid (-0,20%) e Londra (-0,26%).

Dopo un avvio negativo dovuto alla debolezza delle banche, Piazza Affari (FTSE Mib -0,16%, FTSE Italia All Share -0,10%) è riuscita a limitare i danni sul finale di seduta, grazie anche alle positive indicazioni di Kepler Cheuvreux sul mercato azionario italiano.

Giornata nervosa per i bancari, dove Popolare di Milano (+0,6%) ha cercato di rimuovere i requisiti patrimoniali rafforzati imposti da Bankitalia «in seguito alle leggerezze delle vecchie gestioni» ed Unicredit è salita (+0,23%) nonostante Pamplona Capital Management abbia ridotto la propria partecipazione nell’istituto; ottima seduta per Telecom Italia (+2,63%) sulle indiscrezioni relative alla ripresa delle trattative tra Wind e 3Italia per una possibile integrazione tra le due aziende dando fiato ai margini dei maggiori operatori telefonici italiani; pessima giornata per Fiat Chrysler (-1,83%), il cui calo delle vendite in Italia (-11%) ha  ridotto la quota di mercato del gruppo al 27,9%.

Sul fronte del debito sovrano lo spread, il differenziale di rendimento tra il Btp decennale ed il Bund tedesco di pari scadenza, ha chiuso in calo a 162 Bp (Basis point, punti base) portando il rendimento del titolo italiano al 3,1%, mentre il differenziale a dieci anni tra i bond di Spagna e Germania ha terminato la seduta a 149 Bp, per un tasso dei Bonos iberici pari al 2,87%.

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