Il futuro dell’economia: le sfide della ricerca e delle produttività

ROMA – Nonostante le distorsioni prodotte dall’invasione di prodotti a basso costo e di bassa qualità, sappiamo che il futuro delle economie si basa sulla capacità di innovazione, sulla competizione tecnologica dei mercati e sulla conseguente riorganizzazione dei cicli produttivi.

Perdere il passo della ricerca e della modernizzazione equivarrebbe a mettersi fuori  gioco.

Recentemente la Germania ha fornito dei dati riguardanti il suo impegno nella ricerca che riteniamo meritino un’attenta valutazione in Italia. Nonostante i due passati anni di profonda crisi, il settore industriale tedesco ha mantenuto alto il livello di investimenti nel settore della Ricerca e Sviluppo. Solo gli investimenti privati dovrebbe raggiungere i 60 miliardi di euro nel 2011. Appena 5 anni fa le industrie tedesche investivano 50 miliardi di euro l’anno in R&S. La Germania dà, quindi, molta importanza alla ricerca tanto da avere un’organizzazione, la Stiftverband fuer Investitionen in Forschung und Etwicklung, finanziata dalle industrie per monitorare il settore. Nel 2009 il ministero tedesco della ricerca ha aumentato del 5% il budget per la formazione tecnica e per i centri di ricerca statali.

In Germania il Gerd (gross expenditure on research and development), cioè gli investimenti pubblici e privati nella ricerca,  nell’ultimo decennio è stato circa il 2,5% del Pil. Nel 2009, in piena crisi globale, era già salito al 2,8% e alla fine del 2010 dovrebbe raggiungere l’obiettivo del 3%. Si ricordi che questo era l’impegno preso a Lisbona nel 2000 da tutti i paesi dell’Ue. Oggi, oltre alla Germania, soltanto la Svezia e la Finlandia toccano questi livelli. La tenuta della produzione e la crescita delle esportazioni tedesche poggiano anche su queste fondamenta.

Invece in Italia gli investimenti nella ricerca si mantengono intorno a 1,2% del Pil. Almeno si spera. In quanto questo livello si riferisce al 2008, l’ultimo anno di cui si posseggono dati abbastanza precisi forniti dallo studio dell’Ocse per il 2010. Da esso si evince che tale investimento in Italia è stato di 250 euro pro capite, molto al di sotto delle media dei paesi Ocse. La media pro capite tedesca è stata invece di 654 euro. E nel 2007 la parte di R&S finanziata dall’industria privata italiana è stata del 42%, molto al di sotto del 64% della media Ocse. Relativamente alle grandi imprese si calcola che l’Italia è al 21esimo posto della classifica delle spese in R&S fatte dai paesi Ocse, e al 14esimo posto per quanto riguarda le PMI. Anche se ancora in misura insufficiente, le nostre PMI dimostrano una maggiore vitalità e attenzione alle sfide del futuro.

Occorre tenere presente che il 10% circa di questo “Gerd” è finanziato dall’estero, cosa che abbatte ulteriormente l’impegno italiano. E se il nostro investimento in R&S dovesse essere ancora così esiguo, si rischia di perdere anche la marginale attenzione straniera.

Come ben conoscono le nostre università e i nostri ricercatori precari, in Italia soltanto 4 su 1.000 occupati lavorano nella ricerca, mentre in Francia sono in media 8,7 su mille. Se l’innovazione tecnologica arranca, è chiaro che la produttività del lavoro in Italia sia stagnante dal 2000, come indica l’Ocse.

Anche la Commissione europea ha gettato il suo allarme sia per l’ Italia che per gli altri paesi europei, che rischiano di rallentare l’intera locomotiva dell’Unione. Osserva inoltre che nel periodo 2000-6 la produttività del lavoro negli Stati Uniti è cresciuta annualmente dell’1,6% e soltanto dello 0,9% in Europa.
In media, le industrie europee investono meno delle loro concorrenti americane e giapponesi. Tra poco anche di quelle cinesi. La Cina infatti dal 1996 al 2007 ha aumentato i suoi investimenti in R&S in media del 22% all’anno.

E’ vero che la crisi sta cambiando le tendenze economiche, ma non le ha ancora modificate in profondità. Entro il 2020 l’Europa avrà bisogno di ulteriori 16 milioni di lavoratori qualificati e di sostituire altri 12 milioni di posti di lavoro sotto qualificati. Se negli Usa, il 40% delle persone tra i 25 e i 34 anni hanno un diploma universitario e in Giappone superano il 50%, in Europa non raggiungono il 35%. Da oggi al 2020 la Germania stima di avere la necessità di altri 400.000 ingegneri per lo sviluppo della sua economia.

E’ una grande sfida per l’Europa e ancora di più per l’Italia che rischia di diventarne il fanalino di coda. Quando si parla di riforme universitarie, di lavoro, di competitività scientifica e tecnologica questi dati non possono essere messi in secondo ordine. Queste sono priorità che dovrebbero essere considerate ineludibili, come l’obbligo di pagare i circa 70-80 miliardi di euro l’anno di interessi del debito pubblico.

I nostri eccellenti vini, i deliziosi formaggi, le bellezze turistiche invidiabili e la moda sono cose importanti, ma non bastano a fare un’economia solida e moderna.

Su queste questioni, che riguardano il futuro del nostro paese e dei nostri giovani, sarebbe opportuno che vi fossero davvero idee e scelte condivise in Parlamento e non solo.

*Sottosegretario all’Economia nel governo Prodi ** Economista

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