Le storie degli italiani. Gino: un maestro di vita. Quando un’altra Italia è possibile

RAVENNA – A dispetto del suo “grande” cuore, Gino Liverani “e Ros, il Rosso” è morto – d’infarto – qualche giorno fa ad appena 68 anni. Uomo dalla scorza dura, provato dalla vita fin dalla nascita – era rimasto orfano di padre, morto in guerra ancor prima della sua nascita – Gino era come il Sangiovese, il vino della sua Romagna: all’apparenza, un pò grezzo ma schietto e sincero come ogni romagnolo che si rispetti.

Ma, Gino, come ogni buon romagnolo amava il lavoro che viveva come mezzo di affrancamento, non solo dalla miseria e dal bisogno ma, soprattutto, di emancipazione dall’ignoranza, dalla inutilità e dall’anomia sociale. Il lavoro come riconoscimento di dignità d’identità: individuale e sociale. Di classe, si sarebbe detto una volta. Si, perché Gino era una comunista che riassumeva su di se tutti i valori più nobili che questo termine richiama alla mente. Uno di quei comunistelli di sagrestia che hanno tentato di coniugare il loro essere credenti con l’impegno sociale nell’unico “luogo” dove questo, negli anni della guerra fredda, era possibile in Italia: a sinistra, nel PCI.

Già, Gino amava il suo lavoro: capo officina nella carrozzeria dei “ricchi”, la più importante di Ravenna, quella dove riparava, primo in Italia, Mercedes, Lamborghini, Maserati, dove era entrato a 17 anni, senza finire gli studi in seminario – citava Dante e i classici a memoria Gino – e dove era rimasto fino alla pensione: “di vecchiaia”, teneva a precisare.

Una vita senza bisogno di Sindacato, a cui pure si era iscritto da pensionato, perché il contratto per lui era un optional e il suo datore di lavoro, in prima fila ai suoi funerali, lo sapeva di non poter fare a meno di lui. Ma senza partito no, non è mai riuscito a stare, neanche quando ormai, dopo la Bolognina, non esisteva più e da queste parti Rifondazione era rimasta senza sezione e a lui gli toccava andare ai dibattiti del PdS, e via sciorinando nomi nuovi fino ad oggi. Pardon, alla fine di luglio del 2010, quando dopo aver smontato la “festa” disse: “l’hanno prossimo non so se ci sarò”.

La casa di Gino era aperta a tutti: accogliente, pronta disinteressata come il suo modo di fare e di essere, mai attento al profitto ma sensibile e pronto ai bisogni del suo prossimo. Per anni allenatore della squadra di pallavolo, di Piangipane, un piccolo centro frazione di Ravenna in cui viveva, ha cresciuto un’intera generazione di ragazzi e ragazze educandole alla condivisione e alla solidarietà: “vince la squadra – diceva, e intanto, litigava con la moglie per i soldi che metteva nell’impresa quando gli sponsor non si trovavano.

E poi, una volta in pensione, a curar nipoti – tentare con loro di far quello che non aveva fatto con i figli: dedicargli attenzioni e tempo – e a far solidarietà come sapeva fare lui. C’era bisogno d’un coordinatore in uno strano cantiere edile dove in “auto costruzione” un gruppo di cooperatori – mettendo come capitale iniziale il “proprio lavoro” – tentavano di farsi una casa in cooperativa. Gino, anche allora non ci ha pensato un momento e per quasi quattro anni, gratuitamente, si è fatto otto – dieci ore di cantiere per realizzare un’impresa unica in Italia. Oggi, se quel piccolo avamposto di società nuova, dove solidarietà si coniuga con multi culturalità e socialità, esiste ed è una realtà, è solo perchè nella cooperativa “VentiseiALi” c’è stato Gino a sollecitare, spronare, guidare, consolare e soprattutto ad insegnare che la vita non è una gara ma un “gioco dove si vince solo se si vince insieme” e ad insegnare l’etica di una responsabilità individuale che si è smarrita ma che lui aveva ben chiara come quando gli chiedevano perché lo facesse  e lui, ridendo, rispondeva “se non io che ho tempo, chi dovrebbe farlo?”.

Ecco Gino è stato, e rimarrà (come si sarebbe detto una volta), un esempio per chi l’ha conosciuto: per i suoi figli, i suoi nipoti, gli amici e i compagni con cui ha lavorato. E dio solo sa se abbiamo bisogno di esempi, in quest’Italia malandata, mal consigliata, mal governata, malguidata e malconcia in cui viviamo. Ed ecco il motivo per cui vi ho parlato di lui: perché oggi in Italia, manchiamo di buoni esempi da additare ai nostri figli e, quando ne troviamo uno da indicare come guida da seguire è bene che lo rendiamo pubblico.

Poi, vi ho parlato di Gino, perché i valori in cui credeva sono quelli in cui credo e che provo a mettere in pratica e mi piacerebbe tanto che tornassero ad essere valori condivisi. Mi piacerebbe che parole come solidarietà, etica, lavoro, moralità, giustizia sociale, condivisione, gratuità, amore, disinteresse, onestà tornassero a rappresentare valori condivisi e si sostituissero alla cultura del merito che nasconde solo un’altra forma di ingiustizia, alla cultura dell’apparire che porta l’ingiustizia oltre che sul terreno economico anche su quello, diciamo così, fisico; alla protervia tutta economica della cancellazione del tempo come regolatore biologico, alla cultura dell’ineluttabilità delle leggi di mercato che cancellano e negano quelle della natura o, per dirla con Kant, di Dio.

Insomma, in un’Italia dove ai giganti si sono sostituiti dei nani che adescano ballerine e poi le portano ad esempio per i nostri figli; che spiegano che pagare le tasse, non è un gesto di sovranità (povero Gobetti), ma solo una pratica da coglioni da evitare in vista d’uno scudo “tombale” o un condono “fiscale” o una sanatoria, in un Italia così, sento il bisogno d’un sostegno nella mia funzione di padre. Ho bisogno di esempi, di giganti, persone concrete, umane, verificabili e vicine  – nella dimensione cronotopica – da additare ai miei figli come via da seguire e buone pratiche da imitare.

Per questo vi ho parlato di Gino: per aprire una strada; per invitarvi a fare altrettanto raccontandomi di persone speciali divenute, per quest’Italia di oggi, eroi della normalità. Sento il bisogno d’una genitorialità socialmente sostenuta, come quella d’una volta, che abbia l’autorevolezza dell’esempio condiviso e non la brutalità dell’autoritarismo senile del vuoto educatore.

Insomma, raccontatemi di buoni esempi, come io vi ho parlato di Gino: perché era un grande ma, anche, perché era mio suocero e gli volevo bene.

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