Il Paese delle ultime spiagge

ROMA – Le coste della politica sono lunghissime, le spiagge innumerevoli e quasi sempre la spiaggia è l’ultima. La metafora balneare è abusata, ma anche l’immagine dell’ultima chance non scherza (anche pensando al giorno mille, l’ultimo giorno secondo tradizione), come ricorda oggi Filippo Ceccarelli: “Premesso che il baratro è sempre lì, l’Italia resta il Paese dell’«ultima chance», invocata anche ieri dal premier Renzi, ma in tal modo degradata a penultima. Non c’è governo infatti che non se la intesti”.

Quando arrivò Monti, novembre 2011, sulle macerie fumanti del berlusconismo, l’allora presidente della Confindustria Emma Marcegaglia disse: «Monti è l’ultima chance». E quando, nell’aprile del 2013, dopo gli impossibili risultati elettorali e il mattatoio di Montecitorio venne il turno di Enrico Letta, ecco, magari adesso non le farà tanto piacere di ricordarlo, però l’odierna vicesegretaria del Pd Debora Serracchiani disse: «Letta è l’ultima chance».

Questo anche perché l’espressione ha un’indubbia presa mediatica e i politici tendono a imitarsi l’un l’altro. Ma Renzi, l’innovatore, ha fatto il salto e appena eletto leader del Pd, questa «ultima chance» ha preso a sventolarsela immediatamente e ripetutamente in prima persona; prima a proposito dei destini del partito e poi dinanzi all’opportunità di una nuova legge elettorale.

Nell’uno e nell’altro caso ha ritenuto di dover condire, o per altri versi di farcire la salvifica e ultimativa identificazione con una salsa per così dire pop; per cui, in caso di fallimento, dopo di lui ci sarebbe stato «solo il Mago Otelma» spiegò; così come, se fosse andato a monte l’accordo del Nazareno, «chiamate pure Goldrake, perché più di così non potevo arrivare».

Senza scomodare l’eroe robotico dei cartoni animati della sua infanzia, di lì a poco, nel febbraio del 2014, Renzi divenne presidente del Consiglio. E nel suo primo discorso alle Camere proclamò: «Abbiamo una sola chance da cogliere qui e adesso», cambiare profondamente il nostro Paese e via dicendo. Il vivace taglio post- istituzionale impresso al suo primo discorso in Parlamento lo portò in quell’occasione ad un altro mirato sfoggio di cultura televisiva, donde l’auspicio che fosse possibile «tentare di fare uno schiocco delle dita tutti insieme come la Famiglia Addams». Lì per lì il riferimento parve una maliziosa allusione ai Fratelli d’Italia che con Crosetto, La Russa e Meloni in effetti ricordavano un po’ i protagonisti del serial. Ma forse già da allora l’«ultima chance» andava caricandosi del potere di una formula tanto più magica quanto più reiterata. Anche nella versione «ultima spiaggia».

Con la dovuta pedanteria si può ricordare che da fine febbraio ai primi di marzo Renzi seguitò ad auto-intitolarsela negli studi televisivi di “Porta a porta” e di “Che tempo che fa”, oltre che nella sua prima visita a Bruxelles. Anche rispetto ai leader europei, per gli italiani le riforme erano «l’ultima chance» e la promessa suonava netta: «Non la falliremo».

Fra la retorica politica e la realtà dei fatti intercorrono complessi rapporti che le tecniche di persuasione in parte spiegano e in parte vanificano. Così a distanza di sette mesi — certo difficili e anche drammatici — nel sentire ieri Renzi riproporre lo schema mentale dell’«ultima chance» ritornavano alla memoria, più che le parole del discorso della fiducia, le immagini del giovane premier che insieme alla vasta dotazione elettronica (iPhone, iPad, caricabatterie) esibiva sul suo banco a Montecitorio anche un libro — l’avrà poi letto? — dell’atleta-scrittore giapponese Haruki Murakami: L’arte di correre.

Erano i giorni del tripudio velocifero del turbo-leader. La Smart, la maratona, il Freccia-Rossa, una riforma al mese, «in piedi sull’onda» diceva lui, e «con il vento in faccia»; e l’evocazione del blitz, dello sprint, dello scatto, dell’accelerazione, dell’anticipo, del sorpasso, delle tappe bruciate e di quelle da bruciare, dell’adrenalina. Sembrava che tutto potesse, che tutto dovesse sistemarsi in un attimo…

Ora, in realtà la comunicazione politica, se spinta all’eccesso, si dimostra fallace con la stessa intensità con cui è destinato a rivelarsi fragile il governo delle cose nei tempi in cui queste ultime emergono ed evolvono, in genere del tutto a prescindere sia dai gufi che dagli spin doctor del consenso.

Ed eccoci così a un termine insieme assai più vago e ragionevole: «Mille giorni». Vero è che l’espressione riecheggia il titolo di un libro (di Arthur Schlesinger) sulla stagione di Kennedy. Ma per restare al mondo anglosassone il premier laburista Harold Wilson sosteneva che « a week is a long time in politics ». A Roma, dove lo scetticismo è sovrano, si pensa al 2018 e si dice: «Beato chi ci ha un occhio». Nel frattempo l’ultima chance è diventata penultima, i guai sono sempre lì, ma fra gelati e gelate il pubblico crede e non crede alle catastrofi e alle palingenesi.

Dopo di me il diluvio, insomma. Solo che piove già parecchio. E da parecchio tempo.

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