Quello che Renzi non dice. I processi dalle tecnologie digitali sono caratteristici della cultura della sinistra

ROMA – La giornata del 25 ottobre ha segnato una fase di passaggio della storia politica italiana. Non mi dilungherò nell’analisi di ciò che significa, per il corpo della CGIL, la fine del rapporto diretto con il PD e la scoperta di collocarsi all’opposizione non di un singolo provvedimento, ma di una cultura politica, di una prospettiva ideale e sociale.

Non è un caso che il soggetto sociale di riferimento della Leopolda sia quella dell’imprenditore, depurato però della sua natura sociale e quindi non più nominabile come padrone. Una scelta, questa, che è condizionata dall’ideologia dell’ingegnerizzazione dei processi che trasforma le persone in simulacri socio-tecnici e li spoglia della loro dimensione corporale, fisica e spirituale. È per questo che il lavoratore (quello in carne ed ossa che ancora spunta dai luoghi della società, sia quando è collocato in un luogo di lavoro, sia quando è alla sua ricerca) viene vissuto come un soggetto privilegiato che, per essere contemporaneo, deve essere spogliato dei diritti residui per essere omologato alla condizione precaria crescente in nome dell’impossibilità-incompatibilità economico-finanziaria di dare un lavoro con diritti a tutti. Un’idea di eguaglianza che, come il cammino dei gamberi, torna indietro e riallinea al ribasso l’intera società, la sua cultura; la negazione stessa dell’impostazione costituzionale  che vedeva il “lavoro incarnato” come il centro del senso dello stare insieme della nostra comunità. 

È l’ultimo tentativo, in ordine di tempo, che inverte il senso del perché si fanno le cose, che scambia le ragioni del fare: non è più il lavoro che deve servire a dar garanzia alla vita, ma la vita che deve garantire il funzionamento della macchina economico-finanziaria. È una inversione dannosa, la stessa logica che ha portato alla crisi e che sta condannando il pianeta alla definitiva rottura degli equilibri vitali.

L’altro pericolo è rappresentato dalla mistificazione che il digitale sia solo qualcosa riconducibile alla logica della Leopolda (o se volete dei centri tecnocratici che conducono la grande trasformazione planetaria). 

Certo, come molte delle innovazioni, anche il digitale ha ponti di comando che non risiedono nelle mani delle masse. Ma proprio su questo terreno, il leader Matteo Renzi potrebbe avere delle sorprese non gradite, a patto che la sinistra non abbandoni la sfida dell’innovazione e sappia mettere a critica i processi di innovazione introdotti dalla rivoluzione digitale. Adorno diceva che la sinistra non può stare sotto il livello sociotecnico, ma deve saperlo mettere a critica e spremere da questa struttura la umanità negata da chi detiene il potere. 

Allora la sinistra deve iniziare a discutere di come il digitale abbia ridisegnato il lavoro, di come abbia ridefinito le forme delle relazioni umane, di come abbia cambiato le forme dello scambio, la natura della moneta, la possibilità di costruire il senso degli avvenimenti, di come sia cambiata la natura e la forma delle organizzazioni. È un cambio di paradigma che non significa né che il nuovo territorio debba essere accettato così come si sta definendo, né che per  garantire i diritti sia necessario rinunciare all’innovazione.  Anzi.

Quello che alla Leopolda Renzi non dice e che la sinistra di oggi non riesce a vedere, è che i processi più importanti attivati dalle tecnologie digitali sono caratteristici della cultura della sinistra. Le stesse parole al centro della rivoluzione social della rete ci dicono che quello spazio è direttamente connesso con la storia della sinistra. Condivisione, cooperazione, consapevolezza, collaborazione, autogestione, creatività sono le parole con le quali si fanno i conti nelle relazioni e nella produzione digitale e sono state e devono restare le parole della sinistra del futuro. Forse dovremmo ripartire dalle potenzialità che poggiano direttamente sulla capacità di connessione che la rete ci mette a disposizione, a patto di rinunciare al proprio particolarismo, agli schemi organizzativi del passato. La grande costruzione ideologica dell’innovazione sembra imponente ma in realtà è porosa e consente non solo la possibilità di organizzare la resistenza e il dissenso, ma di costruire pratiche produttive e distributive che poggiano su schemi “altri” e abbiano un valore generale.  Questa è la sfida della sinistra di domani, che non tradisce le radici, ma deve generare una nuova pianta.

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