Portogallo, la cecità di un paese allo stremo

ROMA – “Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che, pur vedendo, non vedono”.

Non c’è frase più adatta di questa, tratta da “Cecità” di José Saramago, per descrivere l’esito delle elezioni portoghesi che, di fatto, non hanno visto alcun vincitore, malgrado la triste conferma dei socialdemocratici (che in Portogallo incredibilmente stanno a destra) del premier uscente Pedro Passos Coelho.

La realtà, infatti, ci dice chiaramente che in Portogallo nessuno può davvero far festa: non la coalizione di centrodestra del Portugal à Frente (PAF), giunta prima ma priva di una maggioranza in Parlamento, non i socialisti di Costa, a dimostrazione delle persistenti difficoltà dei partiti del socialismo europeo in tutto il Vecchio Continente, e nemmeno il Bloco de Esquerda, la Syriza portoghese, passato da 8 a 17 seggi in virtù dell’apprezzabile 10,2 per cento conquistato nelle urne ma, probabilmente, condannato dalle decisioni dei prossimi giorni a risultare ininfluente sugli equilibri politici che verranno a delinearsi.
Non ha vinto nessuno e non poteva essere diversamente, in un Paese devastato dalle politiche di austerità imposte dalla Troika, capace di trasformare un capo di governo in un ubbidiente scolaretto, esibito come modello solo per esportare altrove il massacro sociale di cui la penisola lusitana non costituisce altro che un laboratorio, al pari della Grecia, al fine di sperimentare fino a che punto possano spingersi le sofferenze da infliggere alla popolazione, così da fissare l’asticella del massimo dolore consentito, in nome di una ripresa che può palesarsi sotto il profilo numerico e dei parametri economici ma non a livello strutturale, dato che per rimettere in piedi il sistema industriale è ormai acclarato che l’unica soluzione sono gli investimenti pubblici, possibilmente di natura europea sotto forma di project bond.
Non ha vinto nessuno, se non l’astensione, attestatasi al 43 per cento, confermando un allarmante trend diffuso in tutta Europa e da qualcuno derubricato a “questione secondaria”, come se potesse esistere una democrazia senza popolo, senza passione civile, senza partecipazione; una democrazia fatta di élites e confronti nelle segrete stanze; una democrazia escludente nella quale i cittadini non contano più nulla; una democrazia che espropria diritti, distrugge speranze e annienta qualunque prospettiva per il futuro, al punto che è in atto un vero e proprio esodo di giovani verso altre nazioni, avendo capito da tempo che per loro non ci sarà mai un lavoro e, se ci sarà, si baserà su precariato, flessibilità estrema e contratti da fame.
Il non detto di queste tragiche elezioni portoghesi è, dunque, che costituiscono la cartina al tornasole del fallimento dei dogmi tuttora imperanti, l’emblema del disastro, politico e strategico, di una tecnoburocrazia disumana e feroce, il simbolo tangibile di quello che rischia di essere il nostro domani, con elezioni prive di senso, istituzioni svuotate di ogni autorevolezza e credibilità, esecutivi ridicoli e ballerini e una costante incertezza politica che impiega poco a trasformarsi in incertezza sociale, favorendo l’ascesa di quei partiti e movimenti populisti cui si può muovere qualunque accusa ma non quella di essere i responsabili di questa catastrofe. Semmai, e da questa grave mancanza di onestà intellettuale e di analisi politica deriva la crisi del socialismo europeo, le suddette compagini sono le conseguenze di errori, cedimenti e ipocrisie che si protraggono ormai da troppo tempo, fino ad aver generato una confusione totale fra destra e sinistra, fra conservazione e progresso, fino ad aver spacciato per riforme indispensabili dei meri atti di barbarie e di macelleria sociale a spese dei ceti più deboli, gli stessi che si erano affidati con speranza alla sinistra e che oggi, giustamente, da essa si sentono traditi.
E quando il programma politico di un candidato premier consiste nel dire che il peggio è alle spalle e ora, quanto meno, ci sarà consentito di respirare, perché tale era la visione desolante offerta da Coelho, quando un leader politico non può fare altro che sfogliare uno stanco manuale della rassegnazione e recitare quattro formule vuote per indurre i propri connazionali ad arrendersi senza ostinarsi a combattere battaglie perse in partenza, quando si è giunti a questo abisso che costituisce la negazione stessa della politica e di qualunque forma di confronto tra ideologie e orizzonti differenti, è chiaro che molti si interrogano se valga ancora la pena recarsi alle urne e tanti decidano di restare a casa, recitando in solitudine il manuale della resa e della sconfitta.
Capite, pertanto, che parlare di vincitori e vinti è quanto mai stucchevole, che a Lisbona e dintorni hanno perso tutti e che la loro disfatta collettiva è anche la nostra: periferia abbandonata di un continente fragile, terra di opportunità trasformatasi in prigione, gabbia rigorista e dimentica delle ragioni per le quali fu concepito il progetto europeo nell’immediato dopoguerra.

In Portogallo, come in Grecia, come nella Catalogna secessionista, sta morendo un’idea di Europa e si sta affermando un simulacro di democrazia, dai più accettato per mancanza di alternative e dalla politica considerato un fenomeno normale per via della totale incapacità delle classi dirigenti attuali di immaginare un percorso radicalmente diverso e altro rispetto alla deriva cui siamo costretti ad assistere inermi.
I responsabili di questo scempio, giustamente, se ne compiacciono, ignari come sono della lezione storica secondo cui, a lungo andare, non si può pensare di vincere contro un intero popolo e, tanto meno, contro una periferia che, pur essendo allo stremo, riveste comunque un’importanza geopolitica della quale, di questi tempi, non si può non tenere conto.

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