In Cina ha vinto Deng Xiaoping

ROMA – C’era una volta la Cina di Mao, rigorosamente comunista e, per quanto perennemente in conflitto con l’Unione Sovietica e i suoi rappresentanti, fermamente ancorata a una visione del mondo basata sulla preponderanza assoluta dello Stato e su un rigetto istintivo nei confronti del capitalismo e dei princìpi dell’economia di mercato.

Era un Paese oggettivamente arretrato: nulla a che vedere con lo sviluppo economico sfrenato degli ultimi trent’anni, con un PIL che adesso, nella narrazione corrente, sarebbe in crisi poiché quest’anno si attesterà intorno al 7 per cento, quando nella vecchia ed asfittica Europa non si vedono percentuali simili dai tempi del boom economico, a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, e si è costretti a fare i conti con una stagnazione che sta minando le basi stesse della nostra convivenza democratica, come testimonia l’avanzata, pressoché ovunque, di formazioni nazionaliste, xenofobe e nemiche di tutti i valori basilari del progetto europeo.

La Cina di Xi Jinping, al contrario, al netto del fisiologico rallentamento cui sta andando incontro, della grande paura borsistica che ha corso quest’estate e dei problemi ambientali che affliggono le sue megalopoli, a cominciare da Pechino, è un paese tutto sommato in salute, con una crescita e uno sviluppo economico costanti, anche se meno arrembanti rispetto a prima, e una svolta verso la società dei consumi e del benessere che, per quanto profondamente iniqua ed escludente, appare ormai inarrestabile.

La vera domanda da porsi, dunque, non è se la Cina stia bene o meno e neanche è molto utile stare a perdere tempo con le previsioni di crescita per i prossimi anni, in quanto il Dragone si manterrà comunque stabile a livelli che noi ci sogniamo, continuerà a invadere il mercato europeo con merci a basso costo che noi non possiamo permetterci di produrre e ospiterà addirittura il G20 del 2016 a Hangzhou. La vera domanda da porsi è se ne sia valsa la pena di compiere questa svolta liberista verso il capitalismo sfrenato che, oltre ad aver avvelenato la natura e creato autentiche cittadelle della sofferenza e del sopruso come la fabbrica “Foxconn”, emblema della mancanza dei diritti e di condizioni di lavoro indegne di una nazione civile, ha condotto la Cina a dover convivere costantemente con un equilibrio instabile, sospesa fra le vecchie pulsioni maoiste e l’avanzata di un denghismo, dal nome di Deng Xiaoping, ispiratore del “socialismo con caratteristiche cinesi” e iniziatore della svolta tuttora in corso e oggi giunta all’apice, che ha sì consentito al paese di affrancarsi dalla miseria di un tempo e di affermarsi come nazione di primo piano nel contesto mondiale ma ha anche dato vita a una globalizzazione anti-democratica e gonfia di ingiustizie che comincia a farsi sentire anche dalle parti di Pechino, di Shangai e delle altre metropoli nelle quali i cittadini sono costretti ad andare in giro con una maschera sul volto per non respirare le nubi tossiche che creano una cappa di inquinamento addirittura peggiore di quella che ha avvelenato per secoli le città industriali inglesi.

Ciò che sfugge, evidentemente, ai vertici del Dragone è che se nell’Europa del ’700-’800, in assenza di un competitore come gli Stati Uniti e nella totale mancanza di concorrenza da parte di stati che, all’epoca, altro non erano che colonie o ex colonie dei giganti conquistatori del Vecchio Continente, era possibile far lavorare gli operai dodici-quattordici ore al giorno, bambini compresi, pagandoli con un tozzo di pane e costringendoli a vivere in ambienti bui e malsani, oggi tutto questo non è più né accettato né accettabile, in quanto la civiltà nel frattempo ha fatto il suo corso, la storia è andata avanti e un intero secolo di lotte e di conquiste sociali e sindacali ha trasformato gli schiavi in dipendenti, i sudditi in cittadini e la rappresentanza politica in un crogiolo di interessi collettivi che vanno ben al di là dei singoli interessi della nobiltà e dell’aristocrazia oligarchica che sole un tempo avevano accesso nelle istituzioni.

È vero che anche in Europa, da questo punto di vista, stiamo compiendo mostruosi e pericolosissimi passi indietro; è vero che anche da noi, con la Buona scuola e il Jobs Act, è ormai evidente che pure soggetti un tempo di sinistra avvertono forte il richiamo dell’Ottocento e delle sue pessime abitudini padronali basate sul servaggio; è vero che la scomparsa dei diritti e della società di massa in nome dell’ideale thatcheriano secondo cui “esistono solo gli individui” ha prodotto danni ingenti e disastri che sono sotto gli occhi di tutti; è senz’altro vero tutto questo, ma non si può ignorare il fatto che quel secolo di lotte e di conquiste c’è comunque stato, che non è trascorso invano e che i sogni di libertà e di miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro stanno cominciando ad arrivare anche dalle parti del Dragone, sotto forma di rivendicazioni sindacali e di richieste di maggiori diritti, al fine di trasformare le macchine robotiche in esseri umani e di restituire loro una dimensione che non sia solo quella della produzione a ciclo continuo e del consumo volto ad alimentare questa catena infernale destinata, prima o poi, a spezzarsi.

Pertanto no, è evidente che, pur avendo condotto la Cina nel circolo ristretto delle potenze mondiali e pur avendo costretto le sfiancate dominatrici del G8 ad aprirsi ad un più modesto G20 che finisce, di fatto, con l’offuscarle in ogni ambito, è evidente che la rivoluzione denghista, complessivamente, non abbia arrecato grandi vantaggi ad un paese che aveva sì bisogno di liberarsi del mantello asfissiante in cui la avvolgeva il maoismo ma per compiere un vero progresso sul sentiero della civiltà e di uno sviluppo sostenibile, non per imboccare il tunnel di una sorta di capitalismo di Stato che riunisce tutto il peggio del comunismo d’antan, compresa la corruzione degli apparati burocratici, e tutto il peggio del capitalismo liberista spinto all’estremo, compresa l’umiliazione totale e senza possibilità di riscossa di milioni di esseri umani privati della propria stessa dignità e, per questo, in molti casi, spinti al suicidio da un’esistenza indegna di essere vissuta.

E adesso che la Cina è entrata anche a far parte del club ristretto delle potenze monetarie, con l’ingresso del Renminbi nel clan delle valute di riserva che compongono il paniere delle monete più rappresentative dell’economia globale, ricevendo i complimenti della direttrice dell’’FMI, Christine Lagarde, adesso vien da chiedersi se questo “Beijing consensus” (per riprendere il titolo di un libro di Stefan Halper, il quale si rifà chiaramente al “Washington consensus” che segnò il culmine dell’ideologia liberista negli Stati Uniti e diede avvio alla loro folle illusione che la storia fosse finita e che l’unico modello trionfante e imperituro fosse, per l’appunto, quello fondato sull’avidità dei superbanchieri e sui dogmi dei mega-speculatori di Wall Street) possa condurre la Cina verso l’auspicata svolta democratica o se non serva solamente a sancire la cristallizzazione di una resa culturale che mantiene intatto il dominio dispotico di una cerchia di potere quasi tirannica e, in compenso, accetta e fa propri altri strumenti di dominio, utili per coniugare la mancanza di diritti con la privazione di ogni libertà, trasformando gli schiavi in marionette al servizio di un modello socio-economico sempre più diseguale e ancor più pericoloso e insostenibile di quello che si è diffuso negli ultimi trent’anni all’interno del paese.

L’amara sensazione è che i vertici di Pechino abbiano inviato al mondo che conta, a cominciare dall’FMI, il seguente messaggio: restiamo uguali, per quanto riguarda la totale assenza di diritti, ma diventiamo come voi, per quanto riguarda lo strapotere delle multinazionali, con annesse liberalizzazioni e privatizzazioni a sfascio.

Da qui, il riconoscimento della Lagarde, la quale si è congratulata per il “progresso che le autorità cinesi hanno fatto negli anni passati per riformare il sistema monetario”, con la certezza che “ciò porterà ad un maggiore sostegno nella crescita e nella stabilita, sia della Cina sia dell’economia globale”.
Al che ci torna in mente il bellissimo discorso di Robert Kennedy a proposito del PIL, pochi mesi prima di essere assassinato mentre stava per ottenere la nomination democratica per la corsa alla Casa Bianca.

Abbiamo la certezza che questo modello di sviluppo sia folle e devastante, al pari della corsa verso il vuoto, la dissoluzione e il nulla che esso produce, ma sappiamo anche che è proprio su questo nulla che hanno scommesso i barbari che si sono impossessati del nostro pianeta e che ormai contano quanto e più degli stati stessi. Non a caso, in America ha vinto Reagan, in Europa ha vinto la Thatcher e in Cina ha vinto Deng, i cui miti di cartapesta crolleranno solo quando la maggior parte della popolazione, e non solo una piccola élite, prenderà atto che se il mondo è oggi in preda al caos la colpa è soltanto loro e delle loro ricette disumanizzanti. La speranza è che, quando ciò accadrà, ci sia ancora la possibilità di porre rimedio a questa catastrofe.

 

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