Meraviglia olimpica

Si sono concluse questa notte, con una cerimonia che passerà alla storia come una delle più intense e suggestive di sempre, le Olimpiadi carioca di Rio de Janeiro. Olimpiadi colorate, vive, allegre, divertenti, ricche di spunti di riflessione e di momenti bellissimi: sprazzi di autentica meraviglia come l’aiuto reciproco che si sono date in gara due atlete rivali, vittime di un infortunio in pista, e la bella rivelazione della nuotatrice Rachele Bruni circa la propria omosessualità, dichiarata senza ostentazione e con un delicato pensiero d’amore nei confronti della sua Diletta. 

Le Olimpiadi di mostri all’ultima recita (e che recita!) come Bolt e Phelps, capaci di entrare nella storia rispettivamente con la terza tripletta d’oro in altrettante competizioni a cinque cerchi (solo Carl Lewis era riuscito in un’impresa simile) e con il record assoluto di medaglie individuali, ben ventotto, di cui ventitré d’oro, e di prendere commiato all’apice della gloria, lasciando un vuoto che sarà difficile colmare tanto nell’atletica quanto nel nuoto.

Nuove promesse, tuttavia, si affacciano sulla scena, come ad esempio la ginnasta americana Simone Biles, capace di compiere volteggi tali che uno di essi ha già preso il suo nome: un prodigio, una gioia per gli occhi e un simbolo di dedizione e di riscatto dopo un’infanzia difficile e costellata di incertezze. 

Stesso discorso per la giamaicana Helen Thompson, degna erede di Bolt nel regno della velocità che sembra aver trovato nell’isoletta caraibica il proprio Paradiso: terminata l’era di Nembo Usain, si apre quella della divina Helen e già si preannuncia un’altra cascata di medaglie nella meno accogliente e calorosa ma più organizzata Tokyo.

Diverso il caso di Neymar: per il Brasile, vincere l’oro olimpico in casa, il primo della propria storia calcistica, riscattando almeno in parte l’onta patita due anni fa contro la Germania, in un 7 a 1 che pose fine ai sogni di gloria di una nazionale troppo brutta per essere vero e gettò un’ombra, un marchio d’infamia indelebile sulla carriera del povero Scolari, artefice nel 2002 di un inatteso trionfo mondiale in Giappone e Corea, per il Brasile quest’oro olimpico costituiva una sorta di dovere morale. 

Due anni fa “O Ney” non c’era, a causa di un drammatico infortunio subito nei quarti di finale contro la Colombia, ed è inutile star qui a discettare su come sarebbe andata a finire quella semifinale se i verdeoro avessero potuto schierare il proprio astro più luminoso; fatto sta che in questa finale olimpica, ancora contro la Germania, nella più dolce delle rivincite, l’asso del Barcellona ha messo a segno prima un gol su punizione degno dell’amico Messi e poi il rigore decisivo, riscattando alla grande la disfatta del 2014 e la semi-disfatta delle calciatrici brasiliane, giunte quarte in quanto sconfitte dalla Svezia in semifinale e persino dal Canada nella finalina di consolazione.

Non sappiamo se “O Ney” fra quattro anni ci sarà e crediamo che gliene importi assai poco: l’oro da vincere era questo, in casa, con la fascia da capitano al braccio e il magnifico gusto della prima volta; fra quattro anni si vedrà, con la certezza che ripetersi sarebbe bellissimo ma che la tensione emotiva non potrà mai essere la stessa. 

Un lampo nel firmamento olimpico, dunque, con tanto di imitazione della classica esultanza di Bolt: ciò che un Paese intero si aspettava, sognava e voleva a tutti i costi e ciò che questo funambolo ha reso possibile, prima di tornare a scrivere pagine di storia nel contesto di un attacco metafisico quale quello del Barcellona, capace di mettere a segno, in un solo giorno, cinque gol al Camp Nou (due di Messi e tre di Suárez) e uno dall’altra parte del mondo, assai più pesante delle reti realizzate dai compagni blaugrana nella mattanza inflitta allo sventurato Betis. 

Splendida conferma, poi, per le cinesi nei tuffi, per gli africani nella maratona e nella corsa, per gli Stati Uniti nella pallacanestro e per il già menzionato Brasile nella pallavolo (3 a 0 ai nostri vice-campioni azzurri) e nel beach volley, ancora contro di noi, in una sorta di prevedibile e attesa maledizione. 

Infine noi che ci piangiamo sempre addosso ma che, invece, siamo andati meglio che a Londra, concludendo la spedizione con 28 medaglie, di cui 8 ori, 10 argenti e 8 bronzi contro gli 8 ori, 9 argenti e 11 bronzi di quattro anni fa.

Nono posto nel medagliere e, anche se siamo lontani dai fasti di Atlanta e Sidney, un buon bottino per guardare al futuro, sperando di recuperare qualche posizione nell’atletica, di trovare una nuova Cagnotto e una nuova Dallapè nei tuffi, una nuova Pellegrini nel nuoto e di continuare a sparare alla grande come hanno fatto la Bacosi, la Cainero, Campriani e Pellielo nelle rispettive specialità.

Un po’ meno scintillante delle aspettative la scherma, lontana dalla magia del podio tutto italiano del 2000, con Vezzali, Bianchedi e Trillini a farla da padrone, ma diciamo che Garozzo e la Di Francisca costituiscono comunque delle solide garanzie per ripartire. 

E che dire del judoka Basile, di Viviani nell’omnium e del piccolo squalo di Carpi che risponde al nome di Gregorio Paltrinieri, oro nei 1.500 stile libero? Anche su di loro potremo contare a Tokyo, dunque non tutto è perduto e possiamo andare orgogliosi di una storia che continua e che è destinata a regalarci tante altre soddisfazioni in futuro. E così, con la celebrazione del trentesimo compleanno di Bolt, dei centoventi anni delle Olimpiadi moderne e degli ottant’anni delle Olimpiadi berlinesi che videro il trionfo di Jesse Owens, freccia dell’Alabama, sotto lo sguardo attonito di un Führer che da quel momento avrebbe fatto assai più fatica a rivendicare la supremazia della razza ariana, senza dimenticare il primo oro femminile della storia azzurra che vide protagonista, sempre quell’anno, Ondina Valla negli 80 metri a ostacoli e l’unico oro colto dal calcio italiano, grazie alla Nazionale di Pozzo, Annibale Frossi e altri ragazzotti che, una volta diventati professionisti, avrebbero fatto parecchia strada, in questo turbine di ricorrenze e con l’amara sensazione che da oggi il Brasile torni a dover fare i conti con le proprie ingiustizie sociali e i propri  innumerevoli problemi politici, abbiamo visto calare il sipario e passare il testimone al Giappone di Shinzo Abe, in attesa che si riaccenda la fiaccola e torni a volare una meraviglia della quale, specie in questa stagione cinica e infelice, abbiamo più che mai bisogno.

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