Predrag Matvejević: una vita senza confini

Rileggere l’opera di Predrag Matvejević, scomparso lo scorso 2 febbraio a Zagabria all’età di 84 anni, può essere molto utile per comprendere l’identità e le prospettive dell’Europa. 

Perché se è vero che il Vecchio Continente è squassato da venti di crisi, se è vero che alcuni dei paesi che sottoscrissero i Trattati di Roma nel ’57 rischiano di finire, a breve termine, nelle poco sapienti mani di partiti il cui populismo e il cui anti-europeismo costituiscono dei seri pericoli per la tenuta globale del concetto di democrazia, se è vero che il fenomeno Trump rischia di privarci di uno storico ed imprescindibile alleato, se è vero tutto questo, è altrettanto vero, come si evince da un’indagine demoscopica presentata da Maurizio Ferreira sul “Corriere della Sera” di ieri, che la maggior parte degli europei non ha alcuna intenzione di vedere franare questo progetto. 

La tenuta del sistema, dunque, è a rischio ma esso potrebbe ancora farcela, se solo prendessimo coscienza della nostra forza e delle nostre possibilità, se solo ci impegnassimo collettivamente a costruire un’adeguata identità europea, se solo credessimo davvero nelle infinite potenzialità di un soggetto politico, l’Europa, per l’appunto, che potrebbe trasformarsi in pochi anni nel baricentro dei diritti e delle liberta globali, nella culla di un nuovo modello di welfare e nella base da cui ripartire per affrontare le innumerevoli sfide che ci pongono davanti il Ventunesimo secolo e il mondo multipolare e fino ad oggi senza padroni che sembra caratterizzarlo. 

E Matvejević, con la sua cultura mitteleuropea, con la sua prosa affascinante e profonda e con il suo grande rispetto per il Mediterraneo, animato com’era da una passione autentica per l’incontro fra culture e tradizioni diverse, Matvejević costituiva senz’altro una pietra miliare di questo progetto di costruzione di un’identità continentale all’altezza delle sfide del futuro. 

Le sue opere, infatti, erano improntate ad una sorta di geo-politica dei sentimenti, ad un amore senza eguali per il confronto e per la discussione, all’abbattimento di tutti i confini, di tutte le barriere e di tutti gli odi etnici e religiosi che avevano distrutto la sua natia Erzegovina, costringendolo ad un esilio che aveva saputo, tuttavia, affrontare con l’entusiasmo curioso di un uomo consapevole di quante risorse possano derivare anche dalle difficoltà, dalle sofferenze e da un dolore indubbiamente lacerante. 

Una scrittura diretta, avvolgente, segnata dal suo perpetuo viaggiare, dal suo inesausto esplorare e dalla sua lotta contro tutti i regimi, di qualunque colore essi fossero, contro ogni sopruso, ogni vessazione e ogni ingiustizia, contro la crudeltà insita negli esseri umani al pari, ed è questo ciò che lo lasciava sbalordito e lascia sbalorditi anche noi, di una straordinaria ricchezza morale, di una sublime dolcezza e di un’innata capacità di fare del bene e di rendere migliore l’ambiente circostante. 

Le macerie e la riscossa, il sangue e la luna, i fili spinati e il cielo infinito, lo sfiorire dei prati e la crescita degli ulivi: Matvejević, da intellettuale di confine qual era, analizzava queste apparenti contraddizioni e ne individuava, invece, il nesso, la linearità, il senso, giungendo alla conclusione che il bene non possa affermarsi senza aver prima sconfitto il male, come se ne avvertisse quasi il bisogno.

E in questo viaggio ormai giunto al capolinea, in questa scrittura bruciante come solo le parole di confine sanno esserlo, in questo vagare di paese in paese, amando di ognuno gli aspetti degni di essere amati e raccontati, in questa sua unicità, insomma, ci ritroviamo anche noi che oggi, ciascuno come meglio crede, gli rendiamo omaggio e gli diciamo grazie per aver contribuito a tenere viva la fiammella di un sogno, quello di un’Europa unita e costruttrice di pace, che non è mai stato così fragile e in discussione come ora.

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