Mafia Capitale, per anni ha contato su istituzioni assenti e informazione pigra e arresa

ROMA – Roma Capitale. Di cosa? Roma specchio di un paese che si è illuso per un cambiamento che non è mai arrivato e che ora si scopre ostaggio di un comitato d’affari. Roma metafora di un’Italia di furbi e criminali e di una folla di “tengo famiglia”. Tutti gli altri servi, sudditi, numeri. Mucche da mungere.

Mentre le organizzazioni criminali di stampo mafioso si prendevano la città, con calma e determinazione, politica, istituzioni, media e perfino i salottieri intellettuali parcheggiati all’ombra del Cupolone ne negavano – tutti – l’esistenza anche se quello che stava accadendo in città si verificava alla luce del sole, evidente.

Si continua a dire che Mafia Capitale non è mafia, che è una roba non proprio piccolina ma comunque riconducibile a “semplice” corruzione. A sostegno di questa strampalata tesi si continua ad utilizzare l’argomento di una presunta assenza in città di fatti di sangue o comunque violenti. Argomento falso, visto che fra Roma e Lazio il numero di morti ammazzati riconducibili a attività di matrice mafiosa è quantomeno allarmante. Fra il 2007 e il 2013 – l’ho raccontato insieme a Floriana Bulfon nel libro Grande Raccordo Criminale edito da Imprimatur – sono stati più di 60 i casi di esecuzioni – fra i quali alcuni big mafiosi non solo locali – a cui vanno sommati aggressioni, attentati a imprese – non solo commerciali -, intimidazioni e minacce.

Con un clima del genere non stupisce se per anni – sarebbe meglio dire decenni – l’informazione romana e nazionale ha sottovalutato il fenomeno. Non creare allarme, la parola d’ordine. Nessuna inchiesta – se non pochi tentativi isolati e inascoltati – e freddi compitini di taglia e incolla di qualche brogliaccio di questura da far dimenticare il giorno dopo. Ha funzionato. Si sono presi la città. Si sono presi la politica, l’economia e l’anima della Capitale.

Qualcosa è cambiato dopo gli arresti di Carminati & co? Assolutamente no. Certo salta qualche testa, qualcuno finisce perfino “ar gabbio”, ma è tutto spettacolo da consumare in una breve stagione, e Mafia Capitale sta diventando perfino un logo commerciale e non un cancro da estirpare che prima o poi mi aspetto comparire su qualche T-shirt da vendere sulle bancarelle ai turisti che invaderanno Roma per il Giubileo. Chissà, forse qualcuno ha perfino registrato il marchio. Così si camuffa e normalizza l’orrore. E ci si auto assolve.

Basta vedere come la stampa romana e nazionale continua ad affrontare l’argomento. Tecnicamente lo potremmo chiamare “sgocciolio”, ovvero spacciare come inchiesta il taglia e incolla delle ordinanze – puntuali e rigorose, queste si – prodotte dalla procura. Nessuno che gira per i quartieri, raccoglie informazioni, che mette in relazione gli atti e le carte della storia criminale della città con il presente. Sotto il rassicurante strillo “inchiesta” in prima pagina (e ancor di più in home page) la semplice cronaca della notizia del giorno in cui, si ricevono in sala stampa le carte, si estrapola quello che serve e non si fanno domande – prima di tutto a se stessi – e non ci si alza dalla sedia per andare a vedere la città. Questa città!

Fiumi di parole tutte uguali su tutte le testate. Se dice bene cambia solo il titolo. Inchiesta? Ma qualcuno in questo paese si ricorda che cosa sia un’inchiesta? E un reportage? Non ci sono solo i giovani che escono dai corsi di giornalismo universitari standardizzati al ribasso da un modello di giornalismo impiegatizio che è l’anomalia dell’informazione italiana – poi non stupitevi che il settore sia in crisi, altro che internet – ma anche chi inchieste le ha fatte e ha età e esperienza per farne altre e che si è arreso. Ci si accontenta dello sgocciolio da sala stampa della procura e poi si strilla “inchiesta” per camuffare la propria inerzia e pigrizia e il lettore o si accontenta o dismette un pezzo importante del proprio diritto di essere informato. Non funziona solo a Roma così, ma nella Capitale è solo così.

Prendiamo a modello alcuni possibili collegamenti emersi dalle carte dell’ordinanza di ieri. Capisco che vista la normativa attuale sulla diffamazione e sulla stampa sia difficile se non impossibile fare informazione approfondita in questo paese esercitando in pieno il ruolo che la società pretende dal giornalismo, ma qualche domandina in più non sarebbe il caso di farla? Ad esempio all’attuale prefetto di Roma Franco Gabrielli?

Ci prova solo Rinaldo Frignani sulle pagine di cronaca romana del Corriere della Sera che oltre a porre le domande di rito sulla possibilità di uno scioglimento del consiglio comunale capitolino e di un commissariamento della città, un accenno sul ruolo precedentemente ricoperto dal prefetto la fa. “Oggi ci si stupisce che Odevaine sedeva al tavolo per l’accoglienza per i rifugiati. C’era anche lei come capo della protezione civile. Che ne pensa?”. Ecco una domanda da giornalista. Quale che sia la risposta dell’interlocutore. Si, perché Gabrielli non è uomo senza storia che improvvisamente si trova prendere il posto di prefetto della Capitale. Gabrielli prima poliziotto (in Digos a Firenze) e poi assorbito per un lungo periodo di tempo ai vertici dei servizi segreti italiani, direttore prima del Sisde e poi dell’Aisi. Nell’aprile del 2009 è prefetto de L’Aquila. Verrà ricordato dagli aquilani più per aver fatto identificare alcuni bambini che stavano raccogliendo con le cariole le macerie che per aver rappresentato uno Stato vicino e solidale verso la popolazione colpita, mentre contemporaneamente nel suo periodo di mandato nel capoluogo si sperperava denaro pubblico per new town che già oggi si dimostrano mal costruite – anche sul piano anti sismico – e si abbandonava nei fatti la ricostruzione della città e non solo del centro storico. Promosso a capo della Protezione Civile si è trovato a sedersi proprio a quel tavolo che ha gestito l’emergenza immigrati e su cui si sono tuffati Carminati, Buzzi & co. Andiamo alla sua risposta al bravo Frignani sui suoi rapporti con il politico arrestato ieri insieme ad altre 43 persone. “Ho avuto a che fare con lui – ammette Gabrielli – per la storia dell’emrgenza in Nord Africa. Ma è sbagliato dire che l’abbia nominato io. Lui stava lì perché era il rappresentante dell’Upi (Unione provincie italiane). Come facevamo a saper che fosse a libro paga di qualcuno? Per noi era un soggetto istituzionale e sembrava affidabile. Purtroppo in questo Paese è complicato fidarsi anche di sé stessi”. La chiusa sulla fiducia in sé stessi è un capolavoro. Il cronista insiste, ricorda che si tratta della vicenda del centro di Mineo in Sicilia (per la quale sta probabilmente sudando freddo in queste ore anche il ministro Alfano). E Gabrielli risponde in questo modo: “La gara d’appalto ebbe la vidimazione dell’allora autorità anti corruzione che certificò come la procedura fosse corretta. Nessuno immaginava che invece si stavano mettendo d’accordo per la turbativa d’asta. Noi trovammo costi elevatissimi, ma Odevaine riuscì ad abbatterli da 46 euro a 29 a migrante. La cosa assurda è che passò da moralizzatore. Ecco perché adesso bisogna intervenire con la massima durezza”. La cosa assurda è che questa intervista sia uscita solo sulla cronaca romana del Corriere e a quanto sembra non sulle pagine nazionali. In ogni caso bravo il cronista che non ha dismesso il proprio ruolo.

C’è bisogno di persone che raccontino, che lascino la comoda sedia che occupano in redazione e si immergano nella città. Se lo facessero scoprirebbero ad esempio che nell’inevitabile mutamento di equilibri criminali dopo l’arresto del broker Massimo Carminati si annuncia una terribile estate. Che probabilmente sarà segnata dal prepotente ritorno dell’eroina sulle piazze dello spaccio romano. I primi preoccupanti segnali ci sono tutti. La penetrazione dopo decenni di assenza dal mercato di una sostanza che ha segnato duramente almeno una generazione – di certo la mia – è un pericolo sociale che una città stremata come Roma non si può permettere. E un business per le mafie – tutte quelle presenti sul territorio capitolino – colossale.

“Non solo è vera mafia ma c’è qualcosa di assolutamente inedito. La criminalità dà sostegno all’impresa, fa da stampella al capitalismo. È a Roma che si è sperimentato il volto nuovo delle mafie e, in questo modo così esplicito (escludendo Napoli e Palermo), non lo avevo mai visto. A Roma “mafia capitale” non uccide ma aiuta il capitalismo a sopravvivere. Forse il destino del capitalismo è proprio la mafia”. Marcelle Padovani, da decenni a Roma e che per anni ha seguito il fenomeno mafioso, ci lascia questo scenario. Che è una delle poche dichiarazioni sensate e non parziali uscite in queste ore. La mafia come classe dirigente di un capitalismo distorto. Questo non è abbastanza per ricominciare a raccontare e scavare nel ventre molle di questo paese?

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