La dignità delle donne e la società della barbarie

Non importano i loro nomi: si tratta di storie talmente dolorose che le vittime di questa barbarie potrebbero chiamarsi in qualunque modo; meglio evitare, dunque, citazioni che finirebbero inevitabilmente con il dare, ancora una volta, i loro volti in pasto alla cronaca, non alimentare la curiosità morbosa che si è creata, rispettare fino in fondo il dolore straziante delle famiglie coinvolte e concentrarci sulla gravità del fatto, anzi dei fatti, in sé.

Una donna di trentuno anni che si è tolta la vita perché un suo video hard aveva fatto il giro del web, sottoponendola a un linciaggio e a una derisione tale da procurarle una sofferenza e un senso di disperazione difficile da raccontare e ancor più da comprendere se non si è vissuta un’esperienza analoga, cosa che a scrive, fortunatamente, non è mai capitata; pertanto, mi sento a disagio e confesso una certa inadeguatezza ad affrontare l’argomento.

Una ragazza stuprata in discoteca sotto gli sguardi compiacenti delle amiche che, invece di intervenire, si sono limitate a sghignazzare e a filmare la bravata con i cellulari, ovviamente diffondendola poi in rete, ignare del fatto che per quella ragazza, ubriaca ai limiti dell’incoscienza e trattata alla stregua di un oggetto, quel video costituisca un affronto, una perdita di dignità, una messa alla berlina permanente e dalla quale farà fatica a sottrarsi, nonostante la sicura rimozione del filmato e la probabile condanna del suo aguzzino. Il tutto a Rimini: la città di Fellini, emblema della Riviera romagnola, del divertimento a buon mercato e, da qualche tempo, dello sballo e dell’abbandono delle giovani generazioni a pratiche francamente imbarazzanti.

Una ragazza, in Calabria, abusata per anni, fra gli altri dal figlio di un pericoloso boss, e infine lasciata sola da una comunità che ha rinunciato scientemente ad essere tale, rifugiandosi nell’omertà e in una colpevolizzazione anni Trenta che, anziché investire i carnefici e farli sentire minuscoli, cosa che del resto sono, ricade sulla vittima, isolandola e rendendola ancora più vulnerabile di quanto già non sia dopo lo strazio subito. 

Tre episodi diversi ma complementari, tre storie dell’Italia profonda, di una penisola che da Nord a Sud si vede ostaggio di pratiche tribali, di comportamenti disumani, della negazione stessa della dignità e dell’unicità delle persone, della degradazione degli esseri umani, in particolare quelli di sesso femminile, a oggetti di svago e di consumo, in una miscela aberrante che rende bene l’idea del baratro senza cultura nel quale siamo sprofondati. 

Perché è inutile, diciamolo con franchezza, proporre corsi scolastici risibili finanche nel nome se non si va alla ricerca delle origini di quest’orrore, derivante dal cocktail allarmante di disinteresse e disimpegno da parte delle famiglie, diffusione di linguaggi e pratiche violente all’interno della società, ingigantimento delle medesime grazie all’utilizzo nevrotico e oggettivamente eccessivo dei sociale network e, quel che è peggio, deresponsabilizzazione di una gioventù privata di orizzonti e prospettive per il futuro, dunque facilmente preda di pulsioni autolesioniste o volte all’annientamento dell’altro. 

Fatte le debite proporzioni, la matrice del fenomeno va ricercata là dove il politologo e orientalista francese Olivier Roy colloca le radici del jihadismo islamico: nel nichilismo, nella sensazione che esista solo il presente e sia particolarmente squallido, nel rifiuto di un passato che si ritiene, a torto o a ragione, responsabile del proprio malessere e delle proprie drammatiche condizioni economiche e sociali e nella negazione dell’esistenza stessa di un futuro che si prevede incerto, triste, costellato di insuccessi e fallimenti. 

Se vogliamo fornire una diagnosi senza infingimenti della realtà contemporanea, evitando di edulcorare con suprema ipocrisia un’analisi del quadro complessivo che non può che essere amara, dobbiamo prendere in esame il contesto nel quale siamo immersi e asserire con chiarezza che questa società, così com’è, non va da nessuna parte; dobbiamo condannare ogni forma di violenza, da qualunque parte provenga, sia essa verbale o fisica, e renderci conto che la nostra è attualmente una Nazione impoverita, moralmente misera, culturalmente scarsa, con una classe politica e manageriale sostanzialmente non all’altezza e dominata da parvenu che spesso fanno ricorso a slogan da osteria per darsi un tono e conquistare le prime pagine dei giornali; dobbiamo dirci senza giri di parole che, in un ambito del genere, non possono che proliferare i mostri. 

Perché gli autori di questi crimini sono mostri: basta con il minimalismo d’accatto e le giustificazioni fesse, basate per lo più sulla giovane età dei protagonisti dei suddetti episodi; basta perché si è passato da tempo il segno, perché questi alibi servono solo alla generazione dei padri per continuare a non assumersi le proprie responsabilità, a non guardarsi allo specchio e a non avvertire sulla propria pelle il senso di un bruciante fallimento educativo che ha generato una folla di ragazzi soli, incapaci di divertirsi senza perdersi, annullarsi, rivelare in continuazione i propri istinti più bassi e ferini, in un regresso primitivo che mina alle fondamenta il concetto stesso di civiltà occidentale.

Un Paese fragile, un tessuto sociale sfibrato, un’incapacità assoluta di uscire dalla concezione retrograda e insostenibile della donna-strumento, una ridda di commenti da trogloditi che denotano tutta la vigliaccheria dei loro autori e un senso di impotenza al cospetto di una follia che lascia sgomenti e incapaci di rispondere a tono, trattandosi di un abisso inedito e dal quale nessuno di noi sa davvero come uscire. 

Si arranca, si lanciano proposte improvvisate e, a tratti, ridicole, ci si indigna per qualche giorno e poi si torna a giustificare, a minimizzare, a fingere, a cullarsi nell’illusione che certi fenomeni siano rari e circoscrivibili anziché costanti e sempre più preoccupanti: e tutto questo accade perché ci sentiamo forti, ci sentiamo “machi”, siamo degli individualisti sfrenati che da soli si comportano da pusillanimi e in branco si ritengono in diritto di compiere qualunque bestialità; siamo dei quaquaraquà e non abbiamo nemmeno il coraggio di ammetterlo.

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