Diritto di essere informati nell’era del giornalismo manipolato nel libero mercato

«Senza giurare, quando il chiaro dorme, spalancate le fonti. Ponete i nomi»Pietro Ingrao

L’informazione in Italia non è mai stata messa così male dalla nascita della Repubblica ad oggi. Non sto parlando solo della carta stampata e neanche del sistema radio televisivo. Su carta o sul digitale terrestre la situazione da grave si sta avvicinando al limite del disastro, in termini sia economici ma soprattutto di qualità e libertà dell’informazione. Anche in rete la qualità e i ritorni economici sono risibili. Sul livello qualitativo si è davanti a un’approssimazione e una pochezza disarmanti, sul piano della libertà e dell’indipendenza dell’informazione in rete la situazione è gravissima visto che la pubblicità non riesce spesso neanche a coprire le spese dei server è facile capire quale ricatto economico determinati settori politici e imprenditoriali possano esercitare sulle varie testate e spesso anche sui blog non registrati. Poi l’illusione che i social potessero supplire questa crisi di settore (definire settore un diritto costituzionale come quello di informare e di essere informati mi fa rabbrividire) si stia rivelando per quello che sta diventando ogni giorno che passa sempre più esplicito. I social sono, per soggetti economici e politici “forti”, vero e proprio terreno di caccia e di manipolazione. Chi ha soldi da investire sale nella credibilità e nel livello di invasività dei propri messaggi, il resto rimane a livello di chicchiericcio da salotto di amici.

Siamo convinti di poter sapere tutto e di sapere tutto mentre il flusso di informazioni viene ogni giorno di più imbrigliato e manipolato. In Italia, soprattutto, non esistono anticorpi efficaci a questo fenomeno di condizionamento dell’informazione e il sacro graal del libero mercato nel nostro Paese come succede in ogni settore produttivo e industriale è effimero se non falso.

Il giornalismo è diventato, grazie ai tagli del sostegno pubblico all’informazione e alla crisi del settore coincidente con l’esplodere dell’illusione di totale informazione e assoluta libertà offerta dal web, un elemento marginale sopravvissuto a stento alla moria delle testate (in particolare le piccole e indipendenti), un mestiere che, se non per i pochi fortunati abbarbicati al proprio contratto di lavoro, è diventato o esercizio volontaristico oppure un questione di censo. Me lo posso permettere, di fare il giornalista, se ho alle spalle una famiglia oppure se il mio conto in banca me lo consente.

Se poi andiamo ad analizzare i processi di categoria (ordine professionale e sindacato) e i nuovi metodi di formazione (e qui parlo della più totale pochezza sia sul piano culturale che sul piano strettamente professionale dell’offerta formativa offerta dalle Università) e andiamo a verificarne la congruità con il dettato costituzionale (l’art 21 e tutti i suoi comma) possiamo verificare come l’aberrazione del corporativismo abbia avuto devastanti conseguenze fin dalla prima violazione costituzionale con l’istituzione dell’esame di Stato che negava nella prassi il comma secondo dell’articolo 21 che vietava esplicitamente che l’esercizio della professione giornalistica fosse sottoposto a autorizzazione da parte dello Stato. Questa eredità ancora non ce la siamo tolta di dosso, anzi l’abbiamo amplificata e perfezionata per garantire un corporativismo sempre più impermeabile alla trasformazione culturale e democratica della società. 

La cancellazione del finanziamento pubblico (comprensibile in qualche modo quello alle testate di partito) ha cancellato di fatto la stampa indipendente, le cooperative di giornalisti, i progetti quelli si innovativi di giornalismo partecipativo (qualcuno resiste ma in grave affanno) e di inchiesta che intrecciavano mondi solo apparentemente dicotomici come il web, la piccola e media editoria libraria, la stampa e distribizioni di testate indipendenti e le reti di distribuzioni sul territorio (le edicole), ma contemporaneamente sotto la voce “innovazione” ha continuato a finanziare esclusivamente i grandi gruppi editoriali (che comunque hanno continuato a perdere lettori) che con il precedente ordinamento assorbivano ben più del 70% del finanziamento pubblico. 

Ovviamente lo scenario che descrivo è frutto di una necessaria semplificazione, ma non si discosta assolutamente da quello che è evidente oltre ogni ragionevole dubbio.

In un momento storico in cui la nostra società avrebbe una necessità assoluta di poter essere informata e di informarsi il livello e la qualità dell’informazione sono ai minimi storici. Faccio due esempi che valgono per tutti: il primo è quello della riforma costituzionale che si andrà a votare scegliendo fra un un secco “SI” e un secco “NO” e dove l’informazione sulla radicalità e profondità della riforma e delle sue conseguenze sull’intero paese è totalmente assente mentre il dibattito fra i due schieramenti si è ridotto a uno scambio di battute e insulti e colossali balle sparate per fare un po’ di rumore; la seconda è quella della guerra prossima e ventura (e che già si combatte) nel Mediterraneo di cui non sappiamo nulla, non abbiamo informazioni e dove le decisioni vengono prese sopra le nostre teste anche forzando le regole costituzionali (ancora).

Da qui la necessità di ragionare, e in fretta e con determinazione, per creare le condizioni sia sul piano istituzionale e politico che su quello imprenditoriale al fine di riaffermare il diritto di informare e quello di essere informati per poter consentire a tutti di esercitare il proprio diritto di cittadinanza. Questo impone uno sforzo enorme. La necessità di smantellare l’enorme carrozzone resistenziale del corporativismo e dello strapotere politico sull’informazione. La conoscenza non è una merce, ma un diritto. E un diritto riguarda tutti, non solo gli utenti di un servizio commerciale o gli iscritti a un partito o i sostenitori di un “movimento”.

Parlo della necessità di una progetto che consenta a progetti indipendenti e autonomi dai grandi gruppi finanziari-industriali e dalla politica di nascere e di avere le risorse per andare avanti e inserirsi sul mercato dell’offerta informativa. Testate giornalistiche, si. Gruppi di giornalisti che si rimettono a fare informazione senza i lucciuli della finanza e della politica. E quindi un fondo. Ma non come il precedente controllato da esecutivo e gruppi parlamentari, ma indipendente. E un bando pubblico su basi europee per accedere a un finanziamento pubblico (ma non politico o meglio partitico) per ricominciare a pesnare a un sistema informativo che garantisca l’art 21 della Costituzione e contribuisca alla costruzione di una cultura democratica che negli ultimoi decenni si è sempre più sfilacciata.

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