Dino Risi e un secolo d’Italia

Se non se ne fosse andato nel giugno del 2008, all’età di 91 anni, lo scorso 23 dicembre il grande Dino Risi avrebbe festeggiato il suo centesimo compleanno. Cifra tonda, dunque, per uno dei migliori interpreti del cinema italiano, autore di capolavori come “Il sorpasso” e “I mostri”, protagonista dell’epoca aurea della commedia tricolore e maestro indiscusso del genere insieme a Comencini e Monicelli. 

Eppure Risi detestava le verità ufficiali, l’eccessivo intellettualismo, la presunzione, l’arroganza e la pochezza di coloro che si prendono troppo sul serio, di chi non sa ridere, di chi non sa gioire, di chi non è capace di essere felice all’infuori di alcuni noiosissimi cliché e di chi non possiede la levità, la grazia e la bellezza di quell’ironia sferzante che induce a riflettere senza diventare mai stucchevole. 

Dino Risi, milanese, classe 1916, ha attraversato e raccontato un secolo d’Italia con la potenza espressiva di un sognatore e la forza d’animo di un illuso, caratterizzato da un riso sempre più amaro e disincantato, da una tristezza profonda celata dietro qualche battuta tagliente, da un dolore interiore che lo pervadeva e da un declino collettivo che, senza dubbio, si riverberava anche sulla sua vena artistica e su quell’indubbio genio che ne ha contraddistinto la stagione più felice.

Non a caso, una volta asserì che la vita di un regista è composta da tre stagioni: quella della giovane promessa, quella del solito stronzo e quella del venerato maestro. Lui le ha attraversate tutte e tre, con il garbo e l’intelligenza che lo rendevano unico, e a dire il vero nessuno si è mai accorto della seconda, essendo Risi considerato, pressoché da tutti, uno dei maggiori cineasti di tutti i tempi, dotato di una schiettezza e di un senso dell’umorismo che riuscivano a rendere accattivanti persino le narrazioni meno intense, quelle non destinate all’eternità ma, comunque, in grado di dare un tono a un’epoca, di marcare una tendenza o di infrangere alcuni schemi consolidati di cui Risi, con la lungimiranza che gli era propria, riusciva sempre a cogliere l’obsolescenza. 

Chissà cosa ne penserebbe di questo nostro mondo di oggi, chissà quali commedie gli passerebbero per la testa in una fase storica nella quale il genere più adatto a raccontare le vicende umane sembra essere il dramma, chissà cosa si inventerebbe per strapparci un sorriso e una riflessione aspra ma, al tempo stesso, ottimistica, in un contesto nel quale molti di noi avvertono il peso di esistenze che si snodano lungo i binari dell’incertezza, dell’inquietudine e della totale mancanza di valori. 

Senz’altro si opporrebbe al conformismo imperante; senz’altro sarebbe all’opposizione di un certo modo di intendere la politica, l’arte e la cultura in generale; senz’altro si batterebbe contro una certa unanimità di giudizi, legata più alla nostra atavica inclinazione al servilismo nei confronti del potente di turno che a un’effettiva convinzione; senz’altro si indignerebbe per l’eccesso di slogan, hashtag e frasi fatte che animano il dibattito pubblico, costituendo la spia di un’incoscienza e di una superficialità davvero allarmanti, e senz’altro, infine, gli darebbero fastidio la malvagità attualmente in voga, l’assoluta mancanza di ironia e l’infinita serie di esagerazioni e offese gratuite che connota ogni ambito della nostra società. 

Credo, pertanto, che Risi, pur essendo un uomo estremamente moderno, se ne sia andato al momento giusto, quando il suo corpo e la sua mente hanno smesso di sentirsi adatti a vivere la contemporaneità e la sua anima ha avvertito un gran bisogno di silenzio. 

Cento anni per raccontare una vita e un Paese: quanta meraviglia era racchiusa in quel galantuomo d’altri tempi!

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