Luigi Tenco: il mite sognatore incompreso

Probabilmente non sapremo quali pensieri nefasti stessero attraversando la mente  di Luigi Tenco nel momento in cui, a soli ventotto anni, decise di porre fine tanto tragicamente alla propria vita. Sappiamo solo che accadde esattamente cinquant’anni fa, a Sanremo, durante un’edizione del festival nel corso della quale la sua canzone, “Ciao amore, ciao”, era stata incredibilmente bocciata dalla giuria.

Sappiamo che aveva un cuore grande, Tenco: un cuore grande e una sensibilità particolare, dei valori straordinari e dei principi troppo solidi per abbassarsi a certe bassezze, a certa sporcizia morale e al degrado di una società che già allora, a furia di caroselli e sperperi vari, stava smarrendo la propria purezza, la propria dignità e i propri princìpi, trasformandosi in una società dei consumi fra le più ciniche ed escludenti di sempre. 

E Tenco, sul finire degli anni Sessanta, con la sua ingenuità e il suo candore morale, purtroppo aveva fatto il proprio tempo: troppo pura la sua voce, troppo nobili e dolci i suoi ideali, troppo fuori linea il suo modo di essere, in un’epoca che si apprestava a vivere contrapposizioni furiose, odi forsennati e violenze e aberrazioni d’ogni sorta. 

Troppo fragile, dunque, questo cantautore dal carattere timido, per andar bene in una stagione nella quale l’ideologia venne sostituita dall’estremismo e il confronto dai manganelli e dalle manifestazioni continue, prima del suo opposto complementare, ossia quel riflusso anni Ottanta che proseguì l’azione iniziata nei Settanta dalle esagerazioni dei figli del boom e della società del benessere.

Tenco non piaceva perché coltivava l’arte del dubbio e aborriva i cultori delle certezze ad ogni costo; non piaceva perché era un artista inquieto e problematico; non piaceva perché, al pari di Dalida, il suo unico, vero amore, era un poeta nemico di ogni ipocrisia, cui solo un altro grande irregolare come Fabrizio De André seppe rendere giustizia con una canzone semplicemente meravigliosa come “Preghiera in gennaio”. 

Tenco se ne andò giovane, preferendo la morte all’odio e all’ignoranza ma anche, per non dire soprattutto, agli sguardi dall’alto in basso dei signori benpensanti, dei cultori del fatuo e dell’inutile, dei tanti padroni e padroncini di un Paese nel quale gli intellettuali sono nati e si sono formati a corte e coloro che cantano fuori dal coro non hanno mai avuto vita facile. 

Tenco morì e della sua personalità, dei suoi tormenti, del suo senso di costante inadeguatezza, dei suoi pensieri complessi e del suo modo di essere singolare e irripetibile è rimasto ben poco, avendo la macchina stritolante del consumismo discografico generato altri miti e altri idoli, per lo più di cartapesta ma utilissimi per scalare le classifiche, vendere a più non posso per una stagione e alimentare un mercato miliardario nel quale le persone contano poco o nulla. 

Tenco tutto ciò, probabilmente, non lo avrebbe consentito, almeno per quanto lo riguardava, e per questo subì torti e umiliazioni, non riuscendo a reagire come avrebbe dovuto, non possedendo la stessa tempra di De André, la stessa combattività di De Gregori, la stessa popolarità di Guccini ed essendo, al contrario, un genio che apparteneva solo a se stesso. Non so perché, ma quando penso a lui, per assonanza di idee, mi viene in mente il poeta spagnolo García Lorca, a sua volta tradito da ragionamenti che nemmeno capiva, troppo più grandi della sua gentilezza, troppo feroci, barbari ed indecenti per un animo tanto mite e pulito. 

Tenco pagò un prezzo altissimo alla sua delicata battaglia per l’affermazione di un minimo di bontà, alla sua sensibilità spiccata, al suo estro mai disposto a piegarsi alle mode e alle convenienze del momento, alla sua inquietudine esistenziale e al suo essere anacronistico in una stagione falsamente collettiva e volta, al contrario, alla massificazione spinta. E lui, poeta solitario, cantautore innamorato di un’idea romantica della vita e dei rapporti umani, eterno idealista, incapace di rinunciare alla propria visione del mondo, nell’evolversi di quel contesto non andava bene. 

Per questo venne, di fatto, ucciso, anche se il suo in realtà fu un suicidio, e oggi, a mezzo secolo di distanza, ci accorgiamo di quanto avesse ragione quando compiva le sue denunce che pochi hanno capito, molti hanno giudicato e dalle quali quasi nessuno si è lasciato penetrare, altrimenti avremmo senz’altro un Paese migliore e un’umanità innamorata anche di qualche principio e di qualche ideale oltre che di se stessa, del proprio profitto e di una gloria e di una fama drammaticamente effimere.

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