Italiani in Afghanistan: una missione di guerra ‘travestita’

ROMA – E’ ancora una missione di pace quella italiana in terra afghana? I fatti che accadono in quel lontano Paese asiatico sembrano andare in direzione opposta!

A riaccendere dubbi e far riflettere è l’episodio accaduto ieri a Bala Murghab. Un fatto di guerra che ha visto un alpino ucciso a tradimento da un afghano in divisa e un secondo ferito e lasciato in fin di vita. Sono seguite le solite spiegazioni, le solite retoriche parole di rammarico per questa ennesima vittima, la 36esima, in terra afghana in 7 anni di ‘intervento’ militare italiano nel Paese asiatico. I primi a parlare si sa sono sempre i più impreparati, ma poi sono arrivati i commenti degli esperti. Pino Arlacchi, eurodeputato Pd e Relatore per il Parlamento europeo sulla Nuova Strategia dell’Ue in Afghanistan ha commentato affermando che: “L’ultima vittima italiana in Afghanistan ripropone il problema dell’azione delle nostre truppe in quel Paese. Siamo certi che il nostro contingente stia rispettando il mandato assegnatogli dal Parlamento? Non dimentichiamo che questo mandato è molto diverso da quello assegnato ai militari inglesi e americani.

 

I nostri soldati sono in Afghanistan per proteggere la popolazione locale e gli interventi a favore della ricostruzione del Paese. Non possono perciò fare la guerra, cioè attaccare l’insurgency, e non possono partecipare ad operazioni congiunte con le forze speciali USA dirette a decapitare la leadership talebana”. Nella sua nota il sociologo spiega anche che: “Quanto affermato dal ministro La Russa a proposito del ‘controllo del territorio’ da parte del contingente italiano è ambiguo, perchè‚ può significare anche azioni puramente offensive, che non sono permesse dal mandato ricevuto”. La questione è stata affrontata anche da Luca Marco Comellini, del Partito per la tutela dei Diritti dei militari e delle Forze di Polizia, PDM.

 

Comellini come suo solito è stato diretto e preciso: “Altre due vittime del dovere del servizio e dello Stato. A Luca Sanna la sorte ha dato il numero 36. Sono profondamente disgustato dalla lunga lista di agenzie stampa che stanno riportando i messaggi di cordoglio che si susseguono come in una gara ogni volta che un militare italiano muore in questa insensata guerra. Solo gli ipocriti continuano a definire l’operazione bellica in atto in Afghanistan una missione di pace. Quei messaggi di cordoglio trasudano di ipocrisia in ogni parola perché mentre l’alpino stava morendo qui in Italia La Russa e soci stavano festeggiando partecipando alla cerimonia del cambio del capo di stato maggiore della Difesa e nessuno, polito o militare presente, ha pensato che forse sarebbe stato più opportuno interrompere i festeggiamenti. Il rispetto per un militare morto si vede anche e soprattutto da questi gesti.

 

Dalle prime note diffuse dallo agenzie appare chiaro che i fatti devono essere accertati perché è impensabile che in un avamposto possa accadere che un militare spari contro un altro militare e poi possa allontanarsi indisturbato e quindi non regge assolutamente la versione diffusa solo pochi minuti fa dal Ministro della difesa. Se c’è un problema di comunicazione tra il Ministro e i vertici militari La Russa è riuscito ad evidenziarlo benissimo perché sono certo che magari domani scopriremo una nuova versione come è avvenuto nel caso del numero 35 (Miotto). Ciò che sta avvenendo non richiede lunghi ed elaborati processi mentali per giungere ad affermare che li c’è una guerra che non possiamo e che non vogliamo combattere, che i militari non vogliono più combattere. Ma i politici e i generali?”. Sono parole che vengono da personalità che vivono la questione dall’interno o per motivi di studio o per diretta partecipazione alle problematiche. Parole cariche di verità. Il pensiero che subito assale è quello che forse si sta cercando di far passare l’uccisione a tradimento di un alpino per un atto terroristico.

 

Il ministro La Russa ha escluso fin da subito e con forza, come è suo stile, che fosse un militare traditore… Però, se Sanna, che era un militare di professione, si è lasciato avvicinare da qualcuno in zona di guerra, anche se indossava una divisa amica, può voler dire solo una cosa, che lo conosceva. Forse con molta probabilità al ministero della Difesa non si vuole che si pensi che l’Italia stia combattendo per gente che poi, spara a tradimento ai nostri militari. Militari che sono li per la pace, la libertà, la democrazia e la sicurezza internazionale. Militari che in 36 sono tornati in patria avvolti nel tricolore. Un fatto questo che porta ancora a riflettere. Difficile credere che partecipare ad una missione di pace possa comportare la morte e in così tanti. Le notizie che giungono dall’Afghanistan sono spesso frammentarie e inservibili per capire. Però, non serve certo un esperto per capire che a Bala Murghab, dove vi è una base italiana, non è in corso una missione di Pace. Ormai non è possibile continuare a fare un distinguo tra la missione offensiva USA di Enduring Freedom e l’operazione di pace della NATO. Le forze militari straniere e i marines statunitensi combattono la stessa guerra. E allo stesso modo muoiono. Dall’ottobre 2001, anno dell’intervento in Afghanistan, sono 2301 i soldati stranieri, americani e NATO, morti nel Paese. Dal dicembre scorso l’area di Bala Murghab è diventata ‘calda’, per usare un termine militare, per il contingente italiano. Qui i talebani si sono alleati con bande criminali locali per combatterli. In ballo ci sono i lucrosi traffici di droga e di armi.

 

Dopo quanto è accaduto negli ultimi mesi è ormai evidente che nell’area opera una grossa formazione di ribelli, organizzati e capaci di compiere azioni coordinate. Ribelli che posso contare anche su uomini infiltrati nei battaglioni governativi afghani. Quando si combatte e si muore è difficile dire che si sta partecipando ad una missione di pace. In verità lo status dei militari italiani forse è cambiato da quando, nell’estate del 2006, il contingente è stato spostato nelle regioni dell’ovest del Paese asiatico. Da quel momento sono aumentati i rischi dopo che sono iniziati i primi scontri con i Talebani, ufficialmente solo ‘difensivi’. Quando si è costretti a difendersi è inevitabile che poi, si finisca per attaccare. A dimostrazione di tutto questo il fatto che nel gennaio 2009 le truppe italiane hanno cambiato la loro composizione. Da quel momento non solo alpini e bersaglieri, ma anche parà della Folgore e altri e sono cresciuti di numero, oltre le 4mila unità e sono stati dotati di mezzi offensivi come carri armati ed elicotteri da combattimento senza contare i famosi cacciabombardieri AMX. Difficile non credere che forse è da quel momento che sono iniziate le azioni ‘offensive’ italiane.

 

La presenza di infiltrati dei Talebani nelle forze di sicurezza si può dire che è una certezza. Ne hanno fatto le ‘spese’ finora militari statunitensi e inglesi ed ora ‘tocca’ agli italiani. La rabbia è che forse quegli uomini che sparano a tradimento addosso ai militari stranieri sono gli stessi che grazie ai contributi dei Paesi NATO, dopo essersi arruolati nelle forze di sicurezza afghane,  sono stati addestrati a diventare dei soldati o poliziotti. Anche l’Italia ha dato e presto in parlamento si dovrà ridiscute di un rifinanziamento della missione, l’ultimo approvato lo scorso luglio e scaduto a dicembre, per un importo di oltre 300milioni di euro. Parte di questi milioni di euro anchesono quelli destinati al Fondo fiduciario della NATO per il sostegno e addestramento dell’esercito nazionale afghano. Quello stesso esercito che accoglie e cova nel suo seno le ‘serpi’ indottrinate dai Taleban che poi, mordono e a volte anche mortalmente. Purtroppo è questa la dura realtà di quando si va in guerra.

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