Succede in Corea del Nord. Intervista a Flavio Pettinari della KFA

NEW YORK – La minaccia nordcoreana fa tanto più paura quanto più veicolata da una leadership che si ammanta di mistero, risultando imprevedibile e incomprensibile a chi si sforza di dare una risposta all’escalation degli ultimi mesi.

o è da sempre, ma sembra esserlo ancora maggiormente da quando il giovane Kim Jong-un ha assunto le redini del Paese, ormai un anno fa. Per qualcuno l’erede del Caro Leader, passato a miglior vita nel dicembre 2011, è uno strambo dottor Stranamore, politicamente immaturo e inconsapevole degli effetti disastrosi che potrebbero avere le sue provocazione qualora la retorica bellicista si traducesse in un attacco contro i cugini del Sud o le basi militari americane nel Pacifico, come da giorni suggeriscono i dispacci rilasciati dal governo di Pyongyang.

La situazione si è fatta particolarmente tesa dal quando il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha inasprito le sanzioni come ritorsione al lancio del missile a lunga gittata, avvenuto lo scorso dicembre (con lo scopo conclamato di mettere in orbita il satellite Kwangmyongsong-3) e seguito il mese successivo dal terzo test nucleare nordcoreano. L’approvazione di Pechino alla decisione dei Quindici sembra suggerire un raffreddamento nei rapporti tra Pyongyang e il Dragone, suo unico storico alleato e che -secondo le stime del Council of Foreign Relations- fornisce alla Corea del Nord fino al 90% delle importazioni energetiche, all’80% dei beni di consumo e al 45% degli alimenti. D’altra parte le più dure risoluzioni -che prevedono blocco navale, embargo petrolifero e taglio degli aiuti economici dalla Cina- non sembrano rientrare tra i provvedimenti proposti dal Consiglio di Sicurezza, sebbene soltanto alcuni giorni fa il G8 abbia condannato la politica di Pyongyang minacciando nuove sanzioni nel caso la Corea del Nord proceda con altri lanci missilistici o esperimenti nucleari.

Pechino, da parte sua, continua a lasciar trapelare messaggi contrastanti, invitando Kim Jong-un a interrompere le provocazioni in uno sforzo congiunto con Washington, chiedendo la denuclearizzazione della penisola e la ripresa dei “colloqui a sei”, eppure rinnovando a mezzo stampa il suo appoggio al Paese eremita: “L’abbandono della Corea del Nord è un’improbabile scelta diplomatica” titolava il 12 aprile il Global Times, spin-off del Quotidiano del Popolo, organo del Partito comunista cinese, sottolineando implicitamente come la Corea del Nord costituisca ancora un prezioso “stato cuscinetto”, in grado di ammortizzare la presenza degli Stati Uniti a sud del 38esimo parallelo. Nonché una carta da sfoderare nella partita che vede il Dragone e altri paesi asiatici -molti dei quali riuniti sotto il cappello protettivo di Washington- contendersi alcune isole del Mar Cinese Meridionale e Orientale, ricche di risorse naturali e di importanza geo-strategica. Qualcuno è arrivato persino a sostenere che Pechino scateni volontariamente Pyongyang, sua marionetta, per ostacolare l’avanzata americana nella regione, avvertita come un manovra di contenimento ai propri danni. Una tesi che scricchiola non poco se si tiene presente che è proprio l’instabilità nella penisola coreana a fornire un ulteriore pretesto per un intervento Usa in Estremo Oriente.

E se Pechino comincia a dare segni di crescente frustrazione e insofferenza verso l’alleato, anche Vladimir Putin e Fidel Castro hanno speso dure parole nei confronti dell’aggressività del regime nordcoreano, il primo dichiarando che una guerra nucleare con Pyongyang farebbe sembrare il disastro di Chernobyl una “favola per bambini”, il secondo mettendo in guardia da un conflitto che non produrrebbe “alcun beneficio” per i due Paesi e “causerebbe danni a oltre il 70% della popolazione mondiale”. La vicinanza territoriale induce Mosca a spingere per una soluzione diplomatica, sopratutto al fine di difendere i propri interessi nell’area: è nei piani del Cremlino, infatti, far arrivare dei gasdotti nel Sud della penisola coreana, passando attraverso il 38esimo parallelo.

Ma sussiste veramente il rischio che le provocazioni sfocino in un conflitto? Secondo Zhang Lianhui, uno dei maggiori esperti cinesi di Corea del Nord, “ci sono tra il 70% e l’80% di possibilità che scoppi una guerra aperta, perché il nuovo leader nordcoreano Kim Jong-un vuole sfruttare quest’occasione per raggiungere la riunificazione della penisola coreana.” Per gran parte degli analisti occidentali, invece, le reazioni “energiche” del giovane Kim non sono altro che un bluff per arrivare all’apertura di negoziati bilaterali con Washington e ricevere nuovi aiuti, oltre ad essere motivato da ragioni di politica interna -come sembrerebbero confermare le voci circa una spaccatura in seno alla nomenklatura di Pyongyang tra pro e contro Kim Jong-un. Le armi nucleari sono ciò di cui i leader deboli pensano di aver bisogno per distogliere l’attenzione dalle loro politiche economiche  e sociali ha dichiarato tempo fa Rebecca Johnson, co-presidente della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari. E memore di ciò che è accaduto al leader libico Muammar Gheddafi dopo aver interrotto il suo programma di armi chimiche in cambio di promesse dall’Occidente, Kim ha fatto sapere che al nucleare non rinuncerà mai.

Mosse e contromosse. “L’arte della guerra” insegna
Tutto è cominciato con la dichiarazione unilaterale di annullamento dell’armistizio del 1953, e con la sospensione delle varie linee di emergenza che collegano Nord e Sud del Paese, in ripicca alla nuova tornata di sanzione votate al Palazzo di Vetro in seguito al terzo test nucleare di Pyongyang. L’impennare delle belligeranze è sfociato nella chiusura temporanea del parco industriale di Kaesong, situato a nord del 38esimo parallelo ma gestito congiuntamente dalle due Coree come ultimo retaggio del periodo di cooperazione durato dal 1998 al 2007. Praticamente un suicidio per la Corea del Nord che ogni anno ricava dalla zona economica in media 2 miliardi di dollari in valuta pregiata.

Cosa ha spinto il Paese eremita a tanto?
“Ogni giorni si parla di ‘minaccia nordcoreana’, ma se riprendiamo la cronologia dei fatti, è chiaro a chiunque che Pyongyang non fa altro che rispondere, con le dichiarazioni ufficiali o con lo spostamento di mezzi e militari, a quanto sta avvenendo da settimane e settimane al Sud del 38° parallelo con le ennesime esercitazioni congiunte USA-Corea del Sud, e con l’ingresso in scena di armamenti a capacità nucleare, come i sottomarini Cheyenne.” Con queste parole Flavio Pettinari, delegato ufficiale per l’Italia della Korean Friendship Association (KFA), organizzazione che lavora con il Comitato per le Relazioni Culturali con l’Estero della Repubblica Popolare Democratica di Corea e organo per la promozione dell’ideologia Juche, spiegava in una recente intervista l’escalation nella penisola. Quanto alla chiusura dell’area economica speciale di Kaesong, pare che il regime di Pyongyang sia stato messo in allarme dalle dichiarazione del ministro della difesa sudcoreano Kim Kwain Jin, responsabile di aver reso nota “l’intenzione di introdurre nella zona una unità statunitense al fine di recuperare fantomatici ostaggi”. “Ovviamente un ingresso di soldati USA nella RPDC, come accadde 63 anni fa, scatenerebbe immediatamente la controffensiva nordcoreana”, ha spiegato Pettinari.

Sono in molti a riconoscere che la decisione di Seul di rispondere con toni sostenuti ad ogni provocazione dei fratelli del Nord abbia inevitabilmente esacerbato la tensione, così come non deve aver aiutato l’impiego americano dei bombardieri B-52 e B-2 (capaci di trasportare armi nucleari) nelle esercitazioni con il Sud. Secondo gli addetti ai lavori, una scelta militare discutibile e non necessaria.

“La Corea del Nord potrebbe distruggere Seul anche domani stesso se decidesse di farlo, quindi costituisce un pericolo reale” -commentava tempo fa sulle colonne di Bloomberg, David Kang, professore di relazioni internazionali e business presso l’Università della California del Sud- “Seul verrebbe, così, annientata e la Corea del Nord cesserebbe di esistere”. Ma se si leggono con attenzione le dichiarazioni del governo di Pyongyang ricorre spesso una precisazione da non sottovalutare: “Se gli Stati Uniti/Corea del Sud attaccheranno per primi, noi non ci tireremo indietro”. Nonostante l’esibizione muscolare, Kim Jong-un non sembra intenzionato a premere il pulsante rosso per primo, ha chiarito Kang.

I capi militari asiatici conoscono bene le lezioni di Sun Tzu, contenute nel celebre trattato di strategia “L’arte della guerra”: “iniziare una guerra è già di per sé una sconfitta, alla fine si può prevalere sul nemico, ma in ogni caso le perdite ci sono comunque”, ha affermato Pettinari, “la strategia seguita dai nordcoreani mi sembra essere un po’ questa”.

Raggiunto telefonicamente da Dazebao, Flavio Pettinari offre uno scorcio del Regno eremita osservato da una posizione privilegiata. A differenza di chi entra in Corea con le agenzie turistiche straniere (tutte corrispondenti col KITC, l’ente per il turismo statale), chi ha accesso nel Paese con la KFA -che corrisponde con il Comitato per le Relazioni Culturali coi Paesi Esteri di Pyongyang- viene visto come “dongji” o anche amico. D’altra parte proprio gli stretti legami con il governo nordcoreano hanno da sempre attirato sull’associazione diversi sospetti. Pettinari ha tenuto a specificare come i rapporti con Pyongyang vengano filtrati attraverso il Comitato per le Relazioni Culturali coi Paesi Esteri, un ente interministeriali simile a quelli esistenti all’epoca dell’URSS anche in altri Paesi socialisti e che costituisce il referente in loco della KFA Italia.

Quando il giovane Kim assunse il potere alla morte del padre Kim Jong-il, Pechino si aspettava che, pur mantenendo uno stretto controllo sul sistema politico, questi avrebbe avviato riforme economiche prendendo ad esempio “il modello Cina”. Tuttavia i funzionari nordcoreani debbono aver pensato che strizzare l’occhio al capitalismo non avrebbe soltanto minato la purezza ideologica della Nazione, ma avrebbe anche dato al Dragone accesso illimitato al proprio mercato. A Dandong la frustrazione cinese per l’intransigenza del Regno eremita è palpabile. Miliardi di yuan sono stati investiti in una zona economica speciale che ancora verte in una fase di stallo, e uguale sorte sembra essere toccata all’area industriale di Rason, vicino alla frontiera nordcoreana con Cina e Russia. Per Liu Qin, noto analista finanziario cinese, l’apertura di Pechino ad un “sistema socialista con caratteristiche cinesi” ha indignato profondamente la leadership di Pyongyang, che avrebbe pertanto preferito riannodare i rapporti con la Russia di Boris Eltsin, prima, e Vladimir Putin, poi,. Di recente però la rinomina a primo ministro di Pak Pon-ju, noto per le sue tendenze riformiste, ha scatenato una girandola di voci sulla possibilità di un’apertura del Paese eremita. Cosa ne pensi? Condividi l’opinione di Liu? 

 

Negli ultimi mesi della sua vita, Kim Jong-il ha visitato diverse volte sia la Russia che la Cina. In quelle occasioni ha espresso grande apprezzamento per i progressi ottenuti da Pechino. Allo stesso tempo, però, in questi comunicati si diceva chiaramente che la strada del socialismo nordcoreano è un’altra. Sicuramente all’interno del Partito del Lavoro di Corea, cioè nell’Assemblea Popolare Suprema, esistevano già, negli anni ’80 e poi ’90, delle componenti che guardavano con favore alla Cina. Anzi, negli anni ’80 ci sono stati frizioni all’interno del Parlamento tra chi ammiccava alla Cina e chi invece era più legato allo sviluppo nordcoreano che prendeva in quegli anni la linea del Songun, che dà priorità all’esercito. Questo dualismo è ancora presente. Ci sono stati tentativi di mediazioni  attraverso l’introduzione delle zone economiche speciali (Zes), dove gli stranieri possono investire più o meno liberamente, possono fare joint-venture a capitale totalmente straniero, con delle particolarità però: queste joint venture sono a durata e non a durata fissa. Lo Stato rimane in qualche modo il partner perché non garantisce delle concessioni per quanto riguarda i terreni. C’è un tipo di mediazione in stile coreano anche sull’inserimento di elementi di economia di mercato limitati però sempre alle Zes. Inoltre, gli stranieri possono investire anche all’interno del Paese, fuori dalle Zes, stabilendo joint venture con partner coreani, cioè con aziende coreane statali. Tutto questo è sottoposto ad una legislazione abbastanza complessa, ma è ugualmente fattibile. Si tratta comunque di un’evoluzione molto diversa dal socialismo di mercato cinese.

Qualche notizia sullo stato di sviluppo della Zes di Rason?

In realtà Rason è risultata un po’ penalizzata. Nata come zona di libero scambio tra Corea del Nord e Cina, rappresenta l’equivalente di Kaesong per Pyongyang e Seul. Non so se negli ultimi anni ci sono stati sviluppi. Un anno e mezzo fa Cina e Corea del Nord hanno aperto un’altra Zes, che ha coinvolto anche le isole Hwanggumphyong e Wihwasul sul fiume Yalu. Penso che alla fine Rason sia stata penalizzata dal fatto che i cinesi abbiano cominciato a investire massicciamente all’interno del Paese, al di fuori dell’area industriale speciale.

In una tua precedente intervista facevi notare che in realtà è da circa un decennio che la DPRK “si propone come Paese dove poter investire: ricordiamo l’istituzione di zone speciali come la già citata Kaesong (nata nel 2002), e il corposo volume Laws and regulations on foreign investments (pubblicato nel 2006) che raccoglie le leggi in materia – un volume interessante, per capire come far operare partner stranieri senza intaccare il sistema socialista.” Quali sono i segnali tangibili di un cambiamento nella situazione economica del Paese?

Per quanto riguarda la questione economica, i nordcoreani sono un po’ vaghi nel fornire i dati statistici. Lo scorso anno hanno rilasciato numeri molto molto generici per quanto riguarda il bilancio statale. Quello che sono riuscito a vedere andando lì, ma che si può notare anche osservando le riviste commerciali nordcoreane, è che ci si rende conto come molte cose che all’inizio di questo secolo non erano reperibili nel Paese e andavano importate -per esempio la frutta- adesso si trovano. Non è un caso che vengano richiesti dall’estero macchinari per la lavorazione della frutta e la produzione di succhi. E’, inoltre, in espansione l’esportazione di macchine tecnologiche, come per esempio i torni o macchine generali a controllo numerico, sistemi CAD/CAM che richiedono anche conoscenze informatiche per quanto riguarda i softwear. Da questo punto di vista c’è stata una crescita evidente. Per quanto riguarda invece la popolazione -quello che loro chiamano la crescita e lo sviluppo del benessere della popolazione- già nel 2004 e 2005 il governo aveva messo in programma l’aumento dello standard di vita del popolo. Nel senso che raggiunta una determinata potenza militare hanno ritenuto si potesse pensare di investire anche nei beni di consumo. Infatti è aumentata la produzione di piccoli elettrodomestici, giocattoli e beni di consumo in generale. Anche andando nei negozi della distribuzione socialista, dove un tempo erano reperibili solo le cose essenziali, ora si trovano prodotti più variegati, anche per quanto riguarda l’abbigliamento.

Uno degli aspetti che più preoccupa la comunità internazionale è lo stato in cui verte la popolazione nordcoreana, soggetta a malnutrizione e a standard di vita ancora molto bassi. Il tutto sotto gli occhi di una leadership che continua ad investire massicciamente nel suo programma nucleare e missilistico. Come giustifichi il budget militare di Pyongyang?

Lo scorso anno si parlava di investimenti per la difesa del 14-15%, cifre altissime rispetto a quello a cui siamo abituati noi, ma anche rispetto a quanto stanziato da altri paesi socialisti come la Cina, che investe molto meno. Una precisazione che si può fare è che nel 15% per il settore della difesa rientrano anche le infrastrutture destinate all’esercito e alla Guardia Rossa Popolare. L’esercito in Corea non gestisce unicamente la difesa ma riveste anche il ruolo di protezione civile, gestisce anche le politiche forestali, l’apertura delle fabbriche. La maggior parte dei cantieri stradali si avvale del lavoro dei soldati. Vi è una sorta di ammortamento dell’enorme spesa militare a livello di costruzioni e infrastrutture che vengono realizzate dall’esercito. Avviene un livellamento di questo tipo, tenendo presente che tutte le aziende sono statali e tutto quello che il Paese guadagna dalla produzione di queste aziende e delle esportazioni è all’interno dello Stato. Il 15% viene impiegato nella difesa, ma più o meno le stesse cifre sono utilizzate per la cultura, lo sport e l’istruzione. Non ci sono buchi neri nel bilancio e per il regime gli altri settori hanno uguale importanza.

La stampa internazionale ama dipingerlo con tratti grotteschi e caricaturali. Per alcuni Kim Jong-un è il ragazzo rotondetto che ama il basket e i fast food, ma che in preda all’impulsività dei suoi trent’anni potrebbe fare una provocazione di troppo, causando una guerra devastante per il proprio Paese. Per altri è un burattino nelle mani dei due zii, ai quali il Caro Leader, prima di morire, lo aveva lasciato in custodia. Lei -si mormora-  la grande stratega, la mente ideatrice delle recenti minacce nordcoreane, lui l’uomo di Pechino, in passato spesso oltre la Muraglia per studiare il modello economico cinese. Pare che all’interno del Partito si sia creata una spaccatura: qualcuno sembrerebbe non gradire che a guidare il Paese sia il giovanissimo leader. Pensi sia uno scenario plausibile? Quanta influenza ha Kim Jong-un nei meccanismi decisionali del Partito?

All’interno del Partito ci sono figure diverse. Spesso vengono fatte illazioni, si parla di fonti autorevoli che riferiscono di problemi interni alla leadership, ma non darei troppo credito a queste voci. Anche un po’ per esperienza. Più volte in passato la stampa aveva dato Kim Jong-il per morto. Eviterei di prendere per buone le voci di corridoio quando mancano informazioni ufficiali, perché non ci sono basi concrete per dare un giudizio. Il Collegio è un sistema un po’ diverso al nostro sistema elettorale. Il candidato alle elezioni, poniamo all’Assemblea Popolare Suprema, di ogni circoscrizione viene scelto dagli stessi elettori della circoscrizione che si riuniscono in consigli popolari e designano i candidati. Questi candidati si presentano alle elezioni e possono essere iscritti al Partito del Lavoro, al Partito Social Democratico oppure al Partito Chondoist Chongu, ma possono essere anche senza partito. Una volta designati si candidano alle elezioni e vengono eletti nell’Assemblea Popolare Suprema e nelle altre assemblee territoriali. Per quanto riguarda decisione e scelte, per esempio quando si è riuniti l’ultimo Comitato Centrale del Partito hanno votato all’ordine del giorno delle proposte che i deputati del Partito avrebbero dovuto poi presentare all’Assemblea Popolare Suprema. Alcune riguardavano la questione nucleare, altre il benessere e lo sviluppo di alcuni settori. Lo stesso fanno gli altri partiti. Ognuno elabora le proposte che poi saranno presentate dai rappresentanti al Parlamento. Chiaramente hanno preso anche le proposte avanzate dal Commissione di Difesa Nazionale, l’organo di fatto più importante del Paese. Gran parte dei parlamentari sono eletti nell’Esercito e hanno peso nell’approvazione delle leggi e nella discussione sul bilancio. La figura di Kim Jong-un, e prima di lui del padre e del nonno Kim il-sung, oltre a simboleggiare a livello formale il massimo grado della Stato, rappresenta per i coreani un po’ il simbolo nazionale del popolo, l’unità del Paese. Se vogliamo la Corea del Nord è il più asiatico tra i paesi dell’Estremo Oriente. La figura del maestro è molto importante. Spesso si parla in maniera denigratoria della Corea come di un Paese stalinista e confuciano, quasi se fosse un’insulto. Il Confucianesimo è alla base della cultura e del modo di fare dei coreani. Ne è prova il rispetto degli antenati e la devozione che hanno per il culto dei morti. C’è questo connubio tra una tradizione confuciana, con grosse influenze buddhiste, che resiste nonostante l’impianto invece comunista dell’ideologia del Juche. La moralità dei coreani ha profondissime radici nelle tradizioni popolari nazionali. Forse è proprio per questo che negli anni ’40 i nazionalisti hanno sostenuto Kim Il-sung durante la guerra, molti sono entrati nel Partito Comunista e nel Partito del Lavoro. Sono stati molto intelligente Kim Il-sung e Kim Jong-il a non seguire la strada della distruzione del passato intrapresa da Mao Zedong con la rivoluzione culturale. Proprio in quegli stessi anni, invece, il governo nordcoreano ha investito moltissimo nella ristrutturazione dei templi buddhisti, così come nel recupero delle vestigia del passato. Non hanno mai voluto distruggere i retaggi del feudalesimo.

Molti pensano che le minacce di Pyongyang, più che essere dettate da sentimenti di ostilità verso Washington, siano motivate da ragioni di politica interna. Sei d’accordo?

Si possono fare dei parallelismi con Kim Jong-il. Anche lui dopo morte del padre Kim il-sung, quando prese il potere, fece uno sfoggio di muscoli causando grandi momenti di tensione e si arrivò ad una crisi nucleare. Sicuramente c’è la volontà di dimostrare al popolo e all’esercito che la nuova leadership è degna del ruolo che ricopre; è un elemento che anche io sottolineo. D’altra parte le esercitazioni congiunte tra Seul e Washington, che durano da mesi, hanno visto un’ingente presenza militare nella penisola, e si tratta di una cosa gravissima visti anche i precedenti. In passato, nel caso di altre esercitazioni su larga scala c’è stato l’episodio del bombardamento dell’isola sudcoreana di Yeonpyeon e la questione insabbiata dell’affondamento della corvetta Cheonan nel 2010. E’ una cosa veramente fastidiosa vedere queste mobilitazioni militari al confine tra Nord e Sud, sopratutto calcolando che Pyongyang aveva offerto sia a Seul che a Washington di tornare al tavolo delle trattative. C’è la volontà da parte dei nordcoreani di stabilire una certa calma nella penisola, ma quando vedono che la controparte reagisce con l’organizzazione di vaste esercitazioni la risposta nordcoreana è equivalente. I coreani, probabilmente, vorrebbero la ripresa dei “colloqui a sei”. In realtà, negli ultimi comunicati ufficiali si dichiara l’intenzione di voler stabilire un dialogo direttamente con il Sud, senza la mediazione straniera. Anche un ritorno ai “tavoli a sei” sarebbe comunque una cosa positiva.

Pare che David Rodman, lo stravagante giocatore di pallacanestro americano “amico” di Kim, tornerà nel Regno eremita ad agosto. Secondo sue recenti dichiarazioni, sarebbe stato persino contattato dall’FBI dopo il suo incontro di febbraio con il leader nordcoreano. “Volevano sapere com’era andata e chi comanda davvero” ha spiegato il cestista. Come interpreti queste amicizie a stelle e strisce di Kim Jong-un? Si è parlato di una sorta di “diplomazia del basket”…

Quando si legge sulla stampa internazionale che Kim Jong-un utilizza l’ipod tutti rimangono stupiti. Gli Stati Uniti non sono odiati per niente dai coreani. Loro odiano la politica imperialista degli Usa ma sanno benissimo che la società americana non è soltanto caratterizzata dall’imperialismo di chi comanda. Per esempio Kim Il-sung e Kim Jong-il avevano rapporti di amicizia con Jimmy Carter ed erano in ottimi rapporti con Bill Clinton. Non c’è questa grande ostilità che si pensa normalmente; niente a che vedere con il fanatismo dimostrato da alcuni gruppi islamici verso l’Occidente. Quando i coreani utilizzano il termine “nemici” è perché si riferiscono ai soldati americani che sono a sud del 38esimo parallelo. Noi della KFA abbiamo anche dei membri statunitensi, persone che hanno fatto parte delle nostre delegazioni in Corea del Nord e sono state accolte come tutti noi altri. Addirittura quando c’erano state altre manifestazioni antimperialiste, nel 2009, abbiamo portato un professore di medicina americano per fare scambi di studio, in quell’occasione abbiamo anche introdotto in Corea del Nord dei macchinari.
Lo stesso discorso vale per la Corea del Sud. Sui giornali occidentali si scrive che nordcoreani e sudcoreani sono nemici storici, ma in realtà sono lo stesso popolo. Mi ha colpito l’intervista ad un cittadino nordcoreano che in occasione della squalifica ai mondiali della sua squadra rispose che comunque era sollevato dal fatto che quella della Corea del Sud fosse ancora in gara. Alla fine si tratta dello stesso popolo: lo spirito dei coreani di Nord e Sud è lo stesso. E’ cosa ben diversa quello che pensa chi bombarda o si trova a dirigere un Paese da quello che pensa il popolo. Io spero che alla fine di questo mese, quando finiranno le manovre militari congiunte Usa-Corea del Sud, si possa tornare ad un clima di distensione. Nel comunicato del ministero della Difesa uscito il 17 aprile si prendeva atto delle dichiarazioni di Obama (del fatto che non vuole una guerra), dell’arretramento delle truppe americane dalle linee di confine, così come delle modifiche del piano di esercitazioni militari tra Washington e Seul. Mi pare che i toni siano più rilassati. Negli ultimi anni, in occasione della nascita di Kim Il-sung e Kim Jong-il, i nordcoreani hanno portato avanti delle provocazioni, come il lancio del satellite poi fallito. Probabilmente staranno preparando qualcosa nei prossimi giorni; se hanno spostato la data è perché hanno preso atto di queste novità nella posizione assunta dagli Stati Uniti. Se però comunicano al mondo che faranno una cosa, poi la fanno: non tirano indietro la mano dopo aver lanciato il sasso con il rischio di sfigurare. Se annunciano che lanceranno un satellite è perché il satellite è già quasi sulla rampa di lancio. Questo è un po’ il loro modo di comunicare con l’Occidente. Ma se porteranno avanti qualche azione si tratterà soltanto di atti dimostrativi, niente di più: se non vengono attaccati non attaccheranno mai per primi.

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